In una città dell'Italia centro-settentrionale un tempo celebre per dottrina e erudizione, dei giovani universitari, che sono ospiti d'un collegio, aspettano l'arcivescovo, che deve venire a visitarli. Non appena entra nell'edificio, i giovani gli s'avvicinano, aspettando qualcosa di buono: parole di saggezza, consigli pieni di sapienza. Il direttore del collegio li presenta uno a uno: «Questo qui studia ingegneria; quest'altro medicina; questo invece vuol diventare architetto». L'arcivescovo li loda tutti, e sottolinea quanto le loro discipline siano utili all'umana società; dice che loro potranno aiutar davvero molto gli altri con la propria opera. Il direttore del collegio continua: «Questo giovane, poi, studia lingua e letteratura latina; e le ha apprese già assai bene, tanto da poter parlare in quella lingua con scioltezza ed eleganza…». Il giovane s'avvicina, sperando che l'arcivescovo possa suggerirgli qualcosa che sia davvero degno d'esser letto tra gl'infiniti e ricchissimi tesori dei Padri della Chiesa; qualcosa con cui egli possa nutrir l'animo, farlo crescere, coltivar le virtù. Ma il porporato, giratosi verso di lui, e guardandolo come se fosse stato uno strano genere di creatura importato da un paese esotico, disse: «Ma davvero parli latino?». «Be', almeno ci provo», rispose ingenuo il giovane, «perché spero così di poter imparar meglio quella lingua, grazie alla quale io possa comprender gli scrittori antichi e i poeti che…». «Benissimo!», lo interrompe inopportunamente l'arcivescovo. «Allora senza dubbio hai imparato le parolacce e le oscenità dei romani! Come si dice…?». E qui comincia a sciorinar parole che non sarebbero ammissibili neanche sulle labbra di prostituti alessandrini; ma lui se ne fa maestro, apre la strada, stuzzica e, sciolto e senza freni, proferisce in maniera impudente espressioni da far vergogna a chiunque. Gli altri accolgono quest'atteggiamento con risate e simpatia: gli “educatori”, gli “insegnanti”, gli alunni, adulti e giovanotti: in breve tutto il corridoio, ogni atrio risuona di battutacce da trivio. Il giovane studioso di latino è frastornato, impallidisce, si vela di rossore; vedendo questo pudore, quello, che avrebbe dovuto essere il rappresentante di Cristo di fronte a quei ragazzi, se la spassa a provocarlo, parlando con sempre maggior licenza. Come son vere le parole di Platone: quando la società è giunta al massimo della sua corruzione – cioè quando gli uomini sono giunti a un passo dalla tirannide – nessuno più si preoccupa della morale, e «i vecchi, scendendo al livello dei giovinastri, si riempiono la bocca di barzellette e scherzi inopportuni, imitando quelli: e fanno questo, com'è tristemente ovvio, per non apparire troppo severi e pesanti» (Rep. 563b). Si dimentica, quell'“arcivescovo”, si dimenticano anche molti sacerdoti, docenti, genitori del loro dovere: vedendo che i giovani inondano i loro discorsi d'un oceano di turpiloquio, li precorrono, tengon loro bordone, sperando, con questo fare perverso e indecoroso, di riuscire a catturare le loro simpatie; si dimenticano che Cristo stesso è stato chiamato la Parola; che ragione e discorso (ratio et oratio) sono le caratteristiche che possono distinguer l'uomo dalla bestia ragliante o ululante; ch'è grazie alla parola che formiamo l'animo alle virtù o ai vizi; si dimenticano ch'è meglio mettersi una mola asinaria attorno al collo e gettarsi in mare, piuttosto che indurre a cadere in una fossa giovani ancora ignari della vita, come fanno i ciechi, guide d'altri ciechi. Chi si nasconda sotto quella porpora, lo scoprano altri: per me è evidente che non è altri che un falso ipocrita, simulatore della religione che professa.