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La teoria del "gender", mina vagante per contributi e pensioni

Vittorio Spinelli martedì 30 giugno 2015
Costituisce un desolante "precedente" la sentenza 4 novembre 2014 del Tribunale di Messina (causa n. 2649). Il giudice ha affermato che l'identità di genere di una persona «può prescindere transitoriamente o definitivamente dall'intervento chirurgico che modifica i suoi caratteri sessuali primari». Grazie a questa decisione ad un giovane di Messina è stato riconosciuto il diritto di essere registrato sulla carta di identità come "femmina" anche senza essersi sottoposto ad un intervento chirurgico. "Maschio" e "femmina" sono termini che hanno un alto significato nei più diversi ambiti sociali. Sono dati oggettivi anche per la previdenza che da sempre ha riservato regole e garanzie ai lavoratori e, distintamente, alle "lavoratrici".Di tutt'altro indirizzo è la visione di quanti intenderebbero riconoscere alla persona molte e diverse identità sessuali (si parla di almeno 58 varianti) a prescindere dal dato biologico. Sarebbe, quindi, consentito in qualsiasi tempo passare da maschio a femmina o viceversa, semplicemente per scelta personale e insindacabile da qualsiasi autorità. Ma chi può escludere una scelta del sesso – anche transitoria come prevede la sentenza di Messina – motivata solo da mera opportunità? Rischiano di aprirsi così autostrade di pensionamento per i lavoratori maschi che, in nome del gender, possono intenzionalmente dichiararsi "femmina" per poter utilizzare le regole previdenziali riservate alle lavoratrici e bypassare le norme più stringenti per il pensionamento maschile. Molti gli esempi, a iniziare dall'età pensionabile: da oggi fino al 2018 le lavoratrici dipendenti anticipano di un anno il pensionamento rispetto agli uomini. Più appetibile è l'opzione donna che si accontenta di soli 57 anni di età e 35 di versamenti. Altre analoghe differenze si riscontrano nel settore pubblico. E sul versante dei contributi: fino a tutto il 2020, la pensione anticipata femminile si ferma a 41 anni invece dei 42 maschili.Anche la previdenza è dunque a rischio di una "colonizzazione" ideologica, che in concreto é in grado di scuotere le basi del sistema. Tutte le forme assicurative, pubbliche e private, si fondano infatti su analisi attuariali, distinte per sesso maschile e femminile, che garantiscono nel medio-lungo periodo la sostenibilità del sistema. L'Istat produce poi statistiche che tengono conto del sesso anagrafico, tra le quali anche dati sulla mortalità della popolazione. Da questa si ricava oggi l'indice della speranza di vita che allunga la decorrenza delle varie pensioni.Da alcuni anni l'Inps si è impegnato a scovare i falsi invalidi. Chissà se l'Istituto dovrà occuparsi anche dei… "falsi gender". Paradossi?