Finiti gli anni del dibattito intorno al precariato, la precarietà è condizione acclamata. I soldi, cattivi mediatori di identità, si propongono così come surrogati della stessa, dandoci una sensazione di sicurezza e tranquillità falsificata. Ma chi non possiede denaro, non ha né identità né sicurezza e si deve così inventare un nemico e combatterlo. Gli spazi di preghiera e di contemplazione vengono, per chi ha soldi, sostituiti da surrogati come l'ora di yoga consumate magari dopo l'ora del corso di lingue e prima dell'ora di massaggio olistico. Per chi non ha soldi si deformano in un annebbiamento della visione che rumina la propria assenza d'identità e cova fantasie più o meno malcelate di vendetta. In un continuo paragone con gli altri, i nuovi “io” tentano di assomigliare a se stessi. Con il doppio sforzo di distinguersi dagli altri e con l'aggiunta dell'intuizione di quali siano i limiti non detti ma ferrei entro cui è consentita e, anzi, esaltata, la stessa diversità. Che, in fin dei conti, laddove tutto è diverso, non ha nulla di diverso. L'io “imprenditore di sé stesso” non è più in grado di capire quale intrapresa gli sia consentita, né a quale enigmatica start up possa dare vita, supposto che non sia già completamente messo fuori uso dalla stanchezza.