A volte neppure ci pensiamo, perché si tratta di qualcosa che comunque entra nei nostri schemi quotidiani, in quella dimensione di "normalità" che, appunto, comprende tutto. Ma una controversia di condominio, una macchina mal parcheggiata che ci sbarra il marciapiede su cui camminiamo, una bega condominiale, possono cambiarci l'umore di una giornata. O di una settimana. Di qualche mese, persino. Se invece ci pensiamo, è – in genere – perché qualcosa di serio, una malattia, un lutto, un fatto tragico o eccezionale, ci riporta coi piedi sulla terra. Che, tuttavia, è sempre la "nostra" terra, dentro la medesima scala di giudizio. Una "nostra" terra di cui siamo quasi prigionieri, incapaci come siamo diventati di alzare gli occhi oltre i suoi confini. Che, spesso, neppure superano quelli dei nostri passi. Ma il punto è proprio qui: «Non è cristiano camminare con lo sguardo rivolto verso il basso, come fanno i maiali, senza alzare gli occhi all'orizzonte». No, non si può perché «Dio non ha voluto le nostre vite per sbaglio, costringendo se stesso e noi a dure notti di angoscia… Ci ha invece creati perché ci vuole felici». E questo Padre, che «sa piangere e piange con noi», chiede a ciascuno di essere una «persona di primavera che aspetta il frutto, che aspetta il fiore, che aspetta il sole, non una persona di autunno, sempre amareggiato, con la faccia dei peperoncini all'aceto». Mercoledì scorso, all'udienza generale, Papa Francesco ha voluto ricordare questa imprescindibile attitudine del cristiano, tanto più importante da sottolineare in un'epoca così piena di incertezze e di paure. Un'immagine, questa della primavera, che immediatamente rimanda, come sottolineato dallo stesso Pontefice, a un qualcosa capace di fiorire in continuazione, e che vuole e si sforza farlo, ogni giorno, in ogni momento. «È così tutta la tradizione del cristianesimo – disse Paolo VI in un'udienza generale del 2 luglio del 1969 – teso verso la sua perfezione... Riprende continuamente il concetto di novità, quando parla di conversione, di riforma, di ascetica, di perfezione. Il cristianesimo è come un albero, sempre in primavera, in via di nuovi fiori, nuovi frutti; è una concezione dinamica, è una vitalità inesausta, è una bellezza». Molto più di una semplice primavera umana, fatta di momenti, di fiammate magari anche straordinarie ma passeggere; di più perché è qualcosa che irradia dalla profondità di una trascendenza che accompagna l'uomo dal suo inizio. È una primavera di ogni giorno, che ogni cristiano è chiamato a far fiorire dovunque egli sia, in ogni momento, a cominciare da chi gli è più prossimo, a testimonianza del proprio essere parte di chi «fa nuove tutte le cose». «La Chiesa non è vecchia, è antica – disse ancora in quel lontano 1969 Paolo VI – il tempo non la piega e, se essa è fedele ai principi intrinseci ed estrinseci della sua misteriosa esistenza, la ringiovanisce. Essa non teme il nuovo. E, ne vive. Come un albero dalla sicura e feconda radice, essa trae da sé a ogni ciclo storico la sua primavera». Ed ecco allora il senso vero della speranza cristiana, che come papa Francesco ci ha detto mercoledì, «si basa sulla fede in Dio che sempre crea novità nella vita dell'uomo, nella storia e nel cosmo». Un padre che sappiamo «non ci lascia mai soli, un padre che ci aspetta per consolarci, perché conosce le nostre sofferenze e ha preparato per noi un futuro diverso. Questa è la grande visione della speranza cristiana, che si dilata su tutti i giorni della nostra esistenza, e ci vuole risollevare». La visione che i cristiani, «uomini di primavera», devono incarnare.