La sofferenza della Maratona non spaventa il Giappone
Era il 1912, un mondo diverso e quella situazione non può ripetersi. I Giochi Olimpici non se lo possono permettere, né se lo può permettere il Giappone che pure ha un legame profondo con la Maratona e con la dose di dolore che questa gara porta con sé. L'episodio più significativo del rapporto fra il Giappone e la Maratona capita proprio a Tokyo, nel 1964. Kokichi Tsuburaya ha talento abbastanza per vincere una medaglia in casa, anche se c'è in gara un mostro sacro si chiama Abebe Bikila, il trionfatore scalzo di Roma 1960. Bikila, questa volta indossando le scarpe, domina come da pronostico, ma la medaglia che Tsuburaya desidera è quella d'argento, il massimo raggiungibile e la prima della storia del Giappone nell'atletica leggera. Tsuburaya se la sente al collo quella medaglia, quando entra, secondo, nello stadio olimpico di Tokyo. Mancano quattrocento metri, la gente è tutta in piedi per lui. L'unico che non partecipa a quella festa si chiama Basil Heatley, atleta inglese nato il giorno di Natale nella contea del Warwickshire che entra pochi secondi dopo e, negli ultimi cento dei 42.125 metri di gara, con un impressionante cambio di velocità lo supera. Tsuburaya arriva terzo, ha la faccia disperata, non ci vuole credere. Si nasconde il viso con l'asciugamano. Chiede esplicitamente perdono dopo la cerimonia di premiazione, anzi, fa di più. Promette solennemente al Giappone intero che, da quel giorno, lui non farà altro che lavorare per vincere, quattro anni dopo, ai Giochi di Città del Messico. Quella ossessione lo accompagnerà in allenamenti durissimi, tanto da essere martoriato da una forma di lombalgia che peggiorerà di anno in anno. Nei primi giorni del gennaio del 1968, nel centro di preparazione olimpica di Asaka, getta la spugna. I medici gli dicono che serve un'operazione, non potrà andare ai Giochi. Tsuburaya torna nella sua camera e, nella notte fra l'8 e il 9 gennaio si suicida, tagliandosi le vene dei polsi. Troveranno il suo corpo la mattina dopo, stretta fra le mani la medaglia di bronzo vinta a Tokyo, al suo fianco una lettera che incita i suoi compagni a dare sempre il massimo.
Anche Haruki Murakami, famoso scrittore tradotto in cinquanta lingue nel mondo, è un maratoneta. Abbina lo scrivere alla corsa, intreccia questi gesti, li ritiene necessari l'uno all'altro. «Correre un'ora al giorno, e garantirmi così un intervallo di silenzio tutto mio, è indispensabile alla mia salute mentale» scrive l'autore de "L'arte di correre", romanzo autobiografico che descrive quella complementarietà fra corsa e scrittura attraverso la disciplina, la regolarità e, in un certo modo, una dose necessaria di solitudine. Murakami fa un discorso sul metodo, una specie di caparbia necessità di ritmo, costanza e determinazione ferrea che vale tanto per i chilometri da percorrere quanto per le righe da scrivere.
Tsuburaya e Murakami sono due esiti diversi di una stessa idea. La Maratona è una disciplina che richiede sofferenza. È una corsa contro la propria idea di limite, è un affacciarsi a guardare cosa c'è di là, oltre. È un duello contro l'impossibile. Ecco perché piace tanto a un popolo come quello giapponese ed ecco perché, a mio giudizio, l'idea che ci possano essere condizioni terribili, in realtà, a loro un po' fa sorridere. Insomma, la Maratona di Tokyo 2020 è già iniziata.