La sofferenza dei bimbi di Gaza. E i mostri in agguato
Caro Tarquinio, ancora una volta le vittime principali del massacro in corso nella Striscia di Gaza da parte di Israele sono i bambini. Dei circa 32.000 morti registrati finora, la metà hanno meno di 18 anni. E tanti ancora ne moriranno, se non sotto i bombardamenti e gli attacchi via terra, per la fame, la sete e le epidemie. La loro situazione era già disperata prima della guerra, come racconto nel mio libro “Bambini all’inferno” (Pagine, nuova edizione 2024). Quando sono andata nella Striscia e nei Territori Occupati della Palestina si era all’indomani della cosiddetta Piombo fuso, 28 giorni di guerra asimmetrica tra dicembre 2008 e gennaio 2009 che aveva causato 1.419 morti gazavi, di cui 318 i bambini, e 13 morti israeliani, dei quali 3 i civili. In quell’occasione ho raccolto le testimonianze dei bambini del clan Samouni, a Gaza, che hanno visto saltare in aria i corpi dei loro genitori e dei loro cari, tutti stretti in una casa dove gli stessi soldati israeliani avevano ordinato loro di entrare. Ho parlato con Adham, che raccoglieva plastica scalzo e a otto anni non aveva sogni. E ho raccolto le testimonianze di ragazzi della Cisgiordania attaccati senza motivo dai coloni, come è successo a Mutaz Musa Banat, nel campo profughi di Al Arab, tra Hebron e Betlemme, Lui mi ha mostrato la sua coscia destra deformata da un cratere rosso con sei giganteschi ferri che gli attraversavano l’osso perpendicolarmente. «Tornavo a casa da scuola – mi ha raccontato Musa – da una macchina mi ha chiamato un colono, io mi sono avvicinato e lui mi ha sparato». Nello stesso campo profughi, Yusef Abu Afif è stato arrestato nel cuore della notte dai soldati israeliani con l’accusa di aver gettato pietre: «Mi hanno picchiato e minacciato per farmi firmare la mia confessione scritta in ebraico». Storie emblematiche di fenomeni sempre più diffusi e impuniti.
Intanto l’odio cresce e si radica. E adesso come vivranno i bambini gazawi sopravvissuti al massacro? Sopravvissuti per modo di dire, perché gli occhi, la mente e il cuore sono stati devastati dalla morte e dalla paura.
Caro Tarquinio, non credevo a quei titoli d’“Avvenire” contro le armi e men che meno alla «bandiera bianca» che l’ipocrisia planetaria ha imputato al Pontefice. Sì, ci vuole tanto coraggio a fare e dire cose così, immaginando lo tsunami successivo. Perché il vero messaggio di Cristo, e mi perdoni se lo dico io non credente, è non aver paura dello scandalo. Nessuna guerra consente il trionfo del giusto, del buono, della vittima. Lei sa che sono stato a lungo deputato comunista. È stata per me un’esperienza importante. Le mie certezze cominciarono a vacillare quando cominciai a visitare i Paesi dell’Est Europa: in quasi tutti venni portato in Commissariato, perché sorpreso a parlare con la gente, per strada e in altri luoghi pubblici. Esprimevo le critiche che il Pci aveva espresso contro l’aggressione sovietica alla Cecoslovacchia. Quando degli agenti in borghese mi invitarono a seguirli, mostrai loro i miei documenti di deputato e di comunista. «Siete per noi il nemico», fu la risposta. Se debbo fare un mea culpa è che di queste esperienze ne parlai solo “tra compagni”.
Non provo nessuna simpatia per il governo arrogante di Vladimir Putin che calpesta i più elementari segni di democrazia. Ma capivo l’omaggio che per molti anni l’Italia e mezza Europa hanno manifestato nei confronti dello “zar”, che era sempre lui, anche se ci offriva gas e petrolio a prezzi convenienti.
Un diplomatico ucraino in risposta al Papa ha detto: possiamo immaginare che nella guerra a Hitler qualcuno avesse potuto chiedere una tregua, una bandiera bianca? Quanta ignoranza in queste parole. Quello che il nazismo ha fatto nei confronti di ebrei, omosessuali e popolo rom e sinti non potrà mai avere scusanti. Tuttavia, dobbiamo interrogarci su quanta responsabilità abbiamo noi, le democrazie occidentali, nell’aver creato e fatto crescere il mostro nazista. Nel 1919 i tre capi di governo dei principali Paesi vincitori della Prima guerra mondiale: i leader di Usa, Francia e Inghilterra si riunirono per stabilire l’ammontare del risarcimento che i due imperi tedeschi sconfitti avrebbero dovuto pagare. L’impresa economica era così complessa che chiamarono come consulente il più autorevole economista inglese, John Maynard Keynes, il quale di fronte alle richieste dei tre Grandi si dimise, dicendo loro che stavano preparando le basi per una guerra mondiale che avrebbe superato quella appena conclusa. Si dimise e scrisse un libro che dovremmo riprendere in mano, in cui profetizza quello che si sarebbe verificato nel giro di un decennio: la nascita in Germania di un odio contro l’Europa, lo spirito di revanche che creò le basi per il fanatismo hitleriano. A completare la profezia keynesiana, venne la crisi delle banche del 1929 con una Germania doppiamente avvilita e messa alla fame: ecco la condizione ideale per la nascita e la realizzazione della follia hitleriana.
Non si può riscrivere la storia. E rinunciare alla consapevolezza che dalla guerra si esce sempre peggiori e sempre sconfitti Ma facciamo tesoro dei nostri errori del passato per non doverli ripetere. Mi perdoni caro Tarquinio, per questo sfogo, ma sentivo di dover dare voce alla mia totale simpatia e condivisione per il coraggio del Papa e di chi ragiona e scrive indicando la via della pace.
Alessandro TessariAbbiamo tutti, credo, davanti agli occhi e nel cuore la disumana sofferenza dei bambini dentro le guerre in corso. Abbiamo tutti, penso, la consapevolezza della terribile “scuola dell’odio” a cui vengono assoggettati. E abbiamo tutti, spero, la volontà di spenderci per quanto sappiamo e possiamo perché questa immane ingiustizia abbia termine o almeno, realisticamente (ed è il realismo da stimare di meno e al quale non ci si deve consegnare) perché venga limitata al massimo. Bisogna essere grati a Cecilia Gentile, collega giornalista, per la lettera denuncia che mi ha affidato e per la nuova edizione del suo dolente e sferzante libro-testimonianza sulla terribile condizione dei bimbi e delle bimbe dei territori palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, occupata ormai da quasi 54 anni dall’esercito israeliano e costellata, secondo i dati di Amnesty International, da circa 300 insediamenti illegali di coloni provenienti da Israele sostenuti a spada tratta, è il caso di dirlo, dai governi guidati, ieri come oggi, da Bibi Netanyahu, ma purtroppo frenati e smantellati solo in minima parte e appena una tantum, tra il 2004 il 2005, per iniziativa di Ariel Sharon (nell’ultima e più saggia fase di una vita pubblica da militare e da politico segnata anche da errori e da orrori).
Questi bimbi e queste bimbe palestinesi e tanti, tanti altri – troppi anche solo da pensare – sono fratelli e sorelle dei piccoli israeliani trucidati in modo atroce il 7 ottobre 2023 o feriti e uccisi lungo i 76 ininterrotti anni di guerra in quella che in tanti consideriamo e chiamiamo Terra Santa. Sono fratelli e sorelle quei piccoli, e gli uni e gli altri sono figli e figlie anche nostri, se crediamo davvero alla realtà di un’unica famiglia umana. Sono fratelli e sorelle tra loro, ma non lo sanno e rischiano nell’arco della loro esistenza di non saperlo mai o – che è lo stesso, e persino più grave – di non concepirlo e di non riuscire ad accettarlo. Un abisso di divisione e di inimicizia, che alcuni coraggiosi – palestinesi e israeliani: ebrei, musulmani e cristiani – s’intestardiscono a voler riempire di buona volontà. Ma l’abisso è orrido e profondo, e tremendamente attraente. E proprio questo è il misfatto più insopportabile che i teorici della «guerra giusta» e della «vittoria totale» sul nemico continuano a compiere su un fronte e sull’altro, come su ogni altra contrapposta linea di battaglia nel nostro mondo senza pace. Solo se riusciamo a vedere e a dire questo, e se agiamo di conseguenza, possiamo sperare di uscire dalla china devastante sulla quale ci siamo di nuovo incamminati tornando a legittimare la guerra come strumento, e strumento principale, della politica.
Faccio parte di una generazione che, sotto il cielo grigio ferro della guerra fredda, ha saputo immaginare un mondo senza più guerra, non solo un pianeta di guerre limitate e di blocchi umani congelati per presunzioni ideologiche. Una generazione che in passato ha espresso e si è affidata a statisti capaci di spendersi perché questa immaginazione di pace diventasse realtà. E ha saputo premere incessantemente, con la forza dell’opinione pubblica, su chi – tra i potenti – era di avviso opposto e predicava, preparava e conduceva uno scontro inesorabile con gli «imperi del male», accompagnando così un cambio radicale, addirittura sino al capovolgimento, di quella postura bellicista. Ho in mente una lunga teoria di personalità che va da Ike Eisenhower (che di guerra s’intendeva e che lo strapotere dei complessi militar-industriali aveva ben conosciuto e infine denunciato) ai fratelli John e Bob Kennedy (assassinati per le loro visioni e per la straordinaria capacità di leadership), da Aldo Moro (tra gli architetti dell’Europa comunitaria e degli accordi di Helsinki) a Willy Brandt (pianificatore e padre nobile della Ostpolitik non solo tedesca) e a Ronald Reagan, folgorato sulla via della quasi apocalisse e convertito al disgelo di pari passo con Mikhail Gorbaciov. Faccio parte di quella generazione, e non riesco a rassegnarmi al disfacimento della consapevolezza politica e morale di quanto la guerra, al tempo della Bomba, sia più intollerabile che mai.
Oggi abbiamo la prova provata che all’ombra annichilente delle ogive nucleari i misfatti si moltiplicano. Tra l’impossibilità della vittoria piena o, al contrario, della sconfitta totale della Russia di Putin nella guerra d’Ucraina ci sono gli arsenali atomici di Mosca e quelli americani, ma soprattutto c’è il massacro del popolo ucraino e del pezzo più povero e facilmente arruolabile del popolo russo e la devastazione di quella terra in una guerra per procura Est-Ovest ormai impossibile da negare. La terrificante rappresaglia su Gaza, il domicidio delle sue case e la sanguinosa punizione della popolazione araba decisa da Netanyahu – oltre venti morti e decine e decine di feriti e mutilati palestinesi per ogni vittima israeliana delle efferatezze compiute dai miliziani di Hamas – è ingiustificabile, eppure continua e s’intensifica nell’opposizione flebile o dell’inazione complice di troppi altri, perché è “protetta” dalle testate atomiche in possesso di Israele. Le armi nucleari, insomma, non impediscono più le guerre, ma rendono più cinici e arroganti coloro che le scatenano o se ne fanno complici.
Ho poco da aggiungere, infine, alla riflessione-sfogo che il filosofo Alessandro Tessari mi affida ancora una volta in forma di lettera. Pensieri potenti e ben centrati, amarcord coinvolgenti. Mentre il clima in Europa si fa pesantissimo e gli Stati della Ue si preparano a mettere sempre più piombo (anche se gli armamenti, oggi, prediligono altri elementi e leghe non solo metalliche) nei bilanci comunitari e nazionali, è importante tornare a riflettere sul sonno della ragione che dopo la guerra del 1914-18 portò alla storta pace di Versailles, contribuendo enormemente a generare i mostri del nazifascismo. La grande lezione di Keynes è buona per ogni tempo, anche per il nostro. Quel suo libro, sodo e profetico, venne pubblicato a tamburo battente nel 1919 (in Italia uscì l’anno seguente) ed era intitolato “Le conseguenze economiche della pace”. Che sono sempre buone e spesso ottime, a patto che la pace non sia la prosecuzione, o la maschera, della guerra. Purtroppo, è ciò che continua ad accadere in Terra Santa: lunghissimi anni senza giustizia e senza equilibrio tra i popoli e per i popoli di Palestina e Israele. Con i palestinesi, senza Stato e con sempre meno terra, in una condizione tale da spiegare (non assolutamente da giustificare, proprio come un secolo fa con il nazifascismo) il ruolo assunto da Hamas e dagli altri gruppi che teorizzano e agiscono in modo speculare e opposto a quello del gruppo di potere costituito da Netanyahu e dall’ultradestra israeliana.
Ovunque si combatte, perciò, bisogna cessare il fuoco e fermare gli arruolamenti al massacro. Premessa urgente del «negoziato che non è mai una resa», come ci ha ricordato papa Francesco, e che può sconfiggere la guerra. Condizione certo non sufficiente per la pace, ma necessaria, necessarissima. Ancora di più nel momento in cui il terrorismo jihadista del Daesh torna a colpire e sceglie Mosca, capitale di guerra, come teatro della sua nuova e spietata prova. I mostri in agguato si fanno più forti delle guerre che alimentiamo.