Il poeta Marco Guzzi ha raccolto, sotto il titolo Dalla fine all'inizio (Paoline Editoriale Libri, pagine 160, euro 13), alcuni «saggi apocalittici» che si prestano a una proficua discussione. Guzzi è convinto (e non gli si può dare torto) che la crisi della modernità, che stiamo vivendo (economizziamo l'aggettivo "epocale"), non è di semplice transizione, bensì di portata antropologica. Il nostro tempo è «apocalittico» non solo perché si trova sull'orlo del baratro, ma anche perché preluderebbe a una nuova nascita, a un uomo nuovo, a una nuova società pacificata e solidale. Con il fascino dell'utopia e con il rischio insito nella pretesa dell'«uomo nuovo» (Nietzsche, Hitler, Marx, Stalin e Mao insegnano), il poeta auspica «una nuova cultura escatologica, e cioè semplicemente una nuova cultura occidentale e cristiana, che sappia pensare messianica-mente i fini della fine, la direzione di questo sfinimento, il ricominciamento con cui esso è strettamente intrecciato». A parte il vezzo insistito di spezzare le parole mettendone in corsivo la metà («de-classato», «omo-geneizzato», «contra-(p)ponendosi», «perfetta-mente»), che alla lunga stucca, il poeta svolge assai pertinenti considerazioni sul matrimonio come opera d'arte, sul ruolo della donna, sull'autorità paterna, sul corpo e i suoi ritmi, fino al denso capitolo "Creatività, formazione, politica", con l'augurio che «la democrazia occidentale riscopra tutta la potenza e vitalità delle sue radici, riconosca di non possedere alcuna autonomia puramente razionale e torni a confrontarsi con queste radici, provocando le Chiese e le comunità cristiane a verificare fino a che punto le loro parole siano state e siano oggi vita incarnata e testimonianza credibile». L'«uomo inedito», che dovrebbe sorgere dalla nuova antropologia delineata da Guzzi, non sarà certo imposto da totalitarismi come quelli rievocati in parentesi qualche riga fa, bensì nascerà da una lavoro di formazione, come quello che Guzzi stesso da anni sta svolgendo con i gruppi di «autotrasformazione» denominati "Darsi pace", secondo una metodologia troppo complessa per parlarne qui, ma informativamente accessibile nel sito www.darsipace.it. Il pur suggestivo ragionamento del poeta si snoda su citazioni difficilmente compatibili, che vanno da padre Balducci a Dossetti, a Hillesum, Rifkin, Bauman, Jünger, Benedetto XVI, Desjimaru, Heidegger, Sartori, Zagrebelsky, de Lubac, «il grande maestro hindu dell'VIII secolo, Sankara» e così via. Un mosaico composto da così svariate tessere da non risultare organicamente coerente. Ma la maggiore perplessità nasce dalla preoccupazione di Marco Guzzi di condurre una riflessione che, dentro un orizzonte esplicitamente cristiano, vuole presentarsi come "laica", amputandosi le ali. Ecco perché nel suo percorso iniziatico dall'«io ego-centrato» all'«io in conversione», all'«io in relazione», il grande assente è la Grazia. Senza la Grazia, ogni tentativo di «autotrasformazione», anche se si appella alla messianicità di Cristo, finisce per confondersi con i mille procedimenti di autoanalisi e di ascetismo iniziatico che pullulano proprio nei periodi di crisi di civiltà come il nostro. Il miglior regalo che il cristiano può fare al "laico" è proprio di parlargli della Grazia, dei sacramenti che la trasmettono. Il Vangelo, da solo, non salva: Cristo ha promesso la vita eterna a chi avrebbe mangiato la sua carne e bevuto il suo sangue. Il cristiano che vuole contribuire allo schiudersi di una nuova umanità deve vivere e diffondere integralmente il messaggio affidato da Cristo alla sua Chiesa, perché l'uomo veramente nuovo è nuovo in Cristo.