La sfida della solitudine Per cosa bisogna vivere
è viva in centro, – oppure nei colossi commerciali delle periferie, che sono le nuove cattedrali. Ci vanno, in tanti, per comprare o anche solo per distrarsi, con i bambini: per riempire di cose quel luogo che abbiamo in mezzo al petto, e che altrimenti, libero dall’ansia del lavoro, nei giorni festivi teme il vuoto. Dunque, certe domeniche a Milano, nei quartieri residenziali, quando la metà degli abitanti è in Liguria e resta aperto il bar cinese, e l’Esselunga. Entrambi svolgono una funzione direi sociale: il cinese per chi già alle sette ha bisogno di un grappino. E il super, ampio, luminoso, con un grande bar, per i pensionati. Bambini pochi, moltissimi cani. I più alteri, i levrieri, i golden retriever, al guinzaglio di dog sitter e colf, giacché i padroni appunto sono fuori città. Tanti, più piccoli, spesso dei bastardini, sono con i loro padroni, ormai di una certa età. Giovani, pochi in giro: hanno fatto mattina nei locali della movida qui attorno, ora dormono. E quindi chi c’è in strada per questo pezzo di Milano, tanto attivo nei giorni feriali? Qualche mamma immigrata spinge un passeggino. Gli altri per lo più sono ex baby boomers, o anche molto più in là con gli anni. I sessantenni fortunati girano a braccetto con la moglie – tanti contrasti finalmente, con i capelli grigi, appianati. (Forse è da vecchi, che ci si vuole bene davvero?) Certi ottantenni però, soli in queste domeniche quiete, mitemente autunnali, confesso che mi fanno male al cuore. Camminano adagio, attenti a non cadere. Alcuni a capo chino, assorti, altri invece si guardano attorno, osservano i bebè, si soffermano sugli occhi degli sconosciuti che incrociano – come cercassero qualcosa, o qualcuno. Fermi a un semaforo – loro soli ormai rispettano rigorosamente il rosso – si chinano a fare una carezza a un cane. È un modo per scambiare due parole col suo padrone, per incassare almeno un sorriso e un “buona giornata”. Cosa non da poco: nei palazzi mezzi vuoti, la portineria chiusa, “buona giornata” non te lo dice nessuno. Erano gli adulti della mia infanzia. La sera uscivano tutti alle diciotto dal lavoro e affollavano i tram, con un giornale del pomeriggio in mano, di quelli con i titoli cubitali. Cappotti scuri, tute blu, anonime scarpe da pioggia: questa all’altezza dei miei occhi di bambina era Milano, la sera, sui tram. Puntuale, laboriosa, severa. E ora quegli uomini e quelle donne non solo sono vecchi, ma lo sono in una città ai loro occhi irriconoscibile. Torme di stranieri calano nel week end per fare shopping a Milano, in una fiera del lusso vero e di quello finto. Antiche osterie fasulle, happy hour d’ordinanza, e una moltitudine che cammina con gli auricolari, e sembra quasi che parli da sola. Smarrisce, questa Milano, i milanesi del primo dopoguerra, tanta è la mutazione subita. Dignitosamente vestiti, una casa, la pensione, non gli manca niente. Ma, non hanno avuto dei figli, o quei figli sono lontani? E i nipoti? Una badante straniera sorregge i più malfermi. Magari a casa li aspetta almeno un gatto. Quanto è prezioso un gatto in certe case vuote, quanto è caro un gatto - quando se ne sono andati tutti. E io, ex baby boomer, ho un po’ paura, dentro a questo orizzonte. Ci vorrebbe una fede imparata da bambini, come
una lingua madre, o una fede da monaci, nelle celle metropolitane di migliaia di uomini soli. Una fede che sappia vedere oltre le sedie vuote, nei tinelli silenziosi. Ma, chi questa fede non l’ha? Sento ripetere, insistente, quasi urgente, il dovere di rispettare e mantenere la vita, ogni vita, fino all’ultimo. Sacrosanto. Mi domando però chi testimonierà, nelle città dei vecchi soli, per che cosa, per chi bisogna vivere. © riproduzione riservata