Prima di conoscere e diventare amico di un giovane giornalista armeno-francese, che era venuto a intervistare Danilo Dolci in Sicilia e che rividi poi assiduamente a Parigi dove aveva fondato una piccola casa editrice specializzata in saggi sul Terzo Mondo, dell'Armenia sapevo solo quel che ne avevo letto nel capolavoro di Werfel I 40 giorni del Mussa Dagh, che narrava la tragedia di quel popolo sotto il dominio turco, ma avevo anche letto avidamente, come tanti, i romanzi i racconti le commedie di un armeno americanizzato, William Saroyan, celeberrimo negli Usa degli anni trenta e amatissimo dai lettori italiani, sulla scia della grande antologia Americana di Vittorini e Bompiani e non solo. Il mio nome è Aram, Rock Wagram l'indistruttibile, Ti voglio bene mamma, e la commedia Il mio cuore è sugli altipiani e i racconti di Che ve ne sembra dell'America? erano letture comuni, anche perché erano storie di emigrati negli Usa e di elogio alla democrazia che li aveva accolti. Più che John Fante (che raccontava gli italiani) o Betty Smith (Un albero cresce a Brooklyn, che raccontava gli irlandesi e fu portato allo schermo con amore da Elia Kazan figlio di migranti dall'Anatolia) o di Mamma, ti ricordo di Kathryn Forbes che raccontava gli svedesi di San Francisco e che ebbe trasposizioni teatrali e cinematografiche di successo, e più del drammatico Cristo fra i muratori di Pietro Di Donato sugli edili italiani di New York, titolo originale Cristo nel cemento, furono i lavori di Saroyan ad accostarci anche allegramente ai modi in cui le minoranze immigrate si fecero yankee... In modi divertenti o commoventi, con una intelligente mistura da intrattenitore sapiente, e con un po' di sociologia e antropologia... Saroyan mi è caro anche perché autore della sceneggiatura (poi romanzo) di un film Mgm del '43, diretto con rispetto dal veterano Clarence Brown, La commedia umana, che la critica (anche l'italiana) non amò perché "bozzettistico" e sentimentale, e alcuni perché di elogio della democrazia statunitense, nel bel mezzo della guerra. Vi si mostrava una piccola comunità californiana durante la guerra, e aveva al centro un Mickey Rooney specializzato nel fare ragazzini irrequieti ma insieme affettuosi, e fu un critico e regista ebreo-francese, Jean-Pierrre Melville a proporne una piena rivalutazione. Mi è venuta voglia di rileggere Saroyan... la cui speciale retorica potrebbe ancora servire di esempio, chissà, agli scrittori italiani figli di migranti.