«L'età avanzata non è più qualificata della gioventù, a dettare precetti (…) è più quello che ha perduto di quanto ha acquistato. È lecito dubitare che per il solo fatto di vivere l'uomo impari qualcosa che abbia un effettivo valore». Henry D. Thoreau, lo scrittore americano, in anni cruciali per l'Occidente, a metà dell'Ottocento, e non nel secondo decennio del terzo millennio, mette in crisi un luogo comune. Che l'età renda l'uomo saggio. A mio parere è uno dei luoghi comuni più infondati: non ho mai conosciuto un uomo che da vecchio fosse più saggio o intelligente di quanto non fosse a trenta o quarant'anni. Non considero, ovviamente, i casi di cedimenti psicofisici, che non fanno testo, parlo di persone perfettamente sane e lucide. Ho sempre registrato la tendenza a ripetere serialmente e apoditticamente sentenze che un tempo erano capaci di confronto, dialettica. I vecchi saggi esistono nelle fiabe mediocri, o in una certa apologetica di misticismo orientale: ma a ben vedere il vecchio saggio taoista o buddista era sapiente anche da giovane. La saggezza non è nell'accumulo di anni, ma nel modo in cui si vive ogni istante. In quel caso allora il vecchio è più saggio: non perché è vissuto più a lungo, ma perché è vissuto “di più”. La quantità conta, allora, perché esalta il ripetersi della qualità.