Il consiglio evangelico e tolstojano di “non giudicare” è da sempre il più arduo da seguire, ché vivendo tra i nostri simili e avendo tutti qualche idea sul bello, sul giusto e sul vero – anche i seguaci del brutto, dell'ingiusto e del falso! – giudicare di persone di fatti di cose ci è immediato e, purtroppo, assai facile. Ed è forse questo l'errore maggiore, di non ragionare e di non “guardarsi allo specchio” (la famosa trave nell'occhio...) prima di giudicare, e di sentirsi autorizzati a dire la nostra su tutto e su tutti, che è oggi una sorta di collettiva compulsione. Tanti anni fa, durante un seminario della rivista “Linea d'ombra”, un giovane collaboratore che ha poi scritto, ovviamente, non pochi libri, mi chiese su cosa basassi io i miei giudizi su libri e film e affermai titubante, a partire dalla mia incerta lettura critica, una specie di mia personale, superficiale ricetta. Cerco di giudicare, gli dissi, con una ingenuità originaria, molto più da lettore che da critico, in rapporto a tre qualità, se ci sono o non ci sono in un'opera, e in che misura l'autore le possiede: il talento, la cultura, il progetto. (E avrei voluto aggiungere l'esperienza, ma sappiamo che ci sono artisti che hanno trovato tutto nella propria testa...). Prendiamo un romanzo o un film contemporaneo, uno dei tanti di cui si parla. Il talento c'è o non c'è, e un critico onesto e avvertito sa subito distinguere chi lo ha da chi non lo ha. Anche della cultura, o di una particolare cultura di cui un autore è portatore, non è difficile accorgersi, anche se oggi si scambia per cultura aver letto o visto molto, e quasi soltanto dei nostri contemporanei, o aver seguito dei corsi di scrittura (in genere meno seri di quelli, mettiamo, di falegnameria) senza troppo ragionarci su, senza aver scelto e approfondito da chi è venuto prima di noi quel che più può servirci. Il progetto, poi, è oggi la cosa più assente e più fiacca, e si direbbe consista nella spinta vitale e narcisistica a farsi avanti, senza una propria forte visione (e una forte idealità) da affermare. Il progetto mi pare la cosa più assente di tutte, e forse è perché le nostre società non hanno più altro progetto che quello della sopravvivenza purchessia, senza che nulla cambi nell'ordine delle cose, delle società, del rapporto tra noi e gli altri, tra noi e la natura. Intere generazioni, da tanti anni e prevedibilmente sino alla fine, senza progetto... e tutti, ormai, come diceva Sciascia, “cretini intelligenti”, laureati. Bene, quando provo (ormai automaticamente...) a cercare queste cose in un romanzo o in un film, è facile che mi deprima. Se penso per esempio a un romanzo di questi giorni, che gode di (relativa ed effimera) risonanza, di un autore abbastanza in auge (è nelle classifiche, ma “il suo nome è Legione”), la mia formuletta dà come risultato (calcolando da uno a dieci): talento 5, cultura 7, progetto 1 o al massimo 2. Considerando come a scuola la media del 6, non si arriva alla sufficienza... E tra tre mesi o cinque quasi nessuno di questo libro si ricorderà più, fuori da una minima cerchia familista e “corporativa”. E dunque, ha senso occuparsene?