Scrive l’autore del noto libro Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Robert M. Pirsig, in un altro suo denso, breve saggio dal titolo Sulla qualità (traduzione di Svevo D’Onofrio; Adelphi, pagine 164, euro 14,00) che tenere molto a qualcosa, comporta che non ci sia separazione tra te e quel che stai facendo. Non c’è separazione perché l’immedesimazione è totale: ci tieni davvero, ci tieni talmente che divieni tu stesso la qualità del tuo lavoro, e allora quella qualità si affina, si staglia da uno sfondo più opaco e indeterminato, mostrandosi in tutta la sua densità e pienezza. Un privilegio raro e davvero preziosissimo, quello di ritrovarsi nel proprio lavoro e amarlo molto. Un regalo della vita capace di illuminare tutto: l’attività, e prima ancora, chi la svolge. Punti di luce nevralgici, magnetici e splendenti, gli individui innamorati della loro attività. Federico Fellini senza dubbio fu uno di questi. Regista geniale e visionario, sempre infervorato da quel che andava realizzando, di film in film è riuscito a disegnare una traiettoria di folgorante bellezza, libertà, eternità. Non che si sia trattato per lui di un percorso soltanto naturale e scontato: quello di essere regista non era stato il suo primo desiderio, lui avrebbe voluto piuttosto essere pittore. Lo racconta in diverse interviste, alcune delle quali riportate nell’interessante libro di Franco Rol, Fellini & Rol, una realtà magica (Reverdito 2022). Come il noto mago e illusionista - e questa anche si conta tra le svariate convergenze e punti di contatto che legavano i due - Fellini nutriva per la professione un rispetto e un’adorazione tali da averlo fatto diventare in qualche modo lui stesso il suo lavoro: non era dato scorgere linea di distinzione tra la sua personalità e le sue opere, i suoi impegni. Interessante anche che l’amore (e il rimpianto) per le mancate vita e carriera da pittore, Fellini li motivasse con l’argomento di una maggiore spontaneità e fluidità nel costruirsi del lavoro per l’artista figurativo rispetto a quanto accada al regista. Il pittore non deve rendere conto a nessuno di ciò che raffigura, così spiegava ai suoi intervistatori, nel mentre al regista tocca spiegare e dimostrare tutto. E se nell’età più matura gli sembrava di avere raggiunto quantomeno un poco di più un certo ideale di maggiore “pittoricità”, era perché si sentiva più autonomo dalle trame, perché lasciava che la mente spaziasse in maniera tale che le storie dei suoi film “venissero da sé”. Robert M. Pirsig non parla in termini molto diversi per spiegare cosa sia “qualità”, e “qualità dinamica”, quella che diversamente dalla statica, ci rende artefici del nostro operare, maestri di noi stessi nel lavorare e amare il nostro lavoro. Scrive, Pirsig, che non deve mai trattarsi di qualcosa di voluto, piuttosto di «un aprirsi dall’interno e scoprire che la cosa che si è intrapresa è più grande di quanto si fosse pensato, che si deve lasciarla crescere senza ostacolarla». La capacità di immedesimarsi con il lavoro, accogliere la “qualità” (dinamica), comporta insomma in primo luogo una libertà assoluta del pensiero, un lasciar briglia sciolta a tutto quanto si presenta alla mente – e di quello, non dover definire, né giustificare, nulla. Il Fellini aspirante pittore e lui anche mago (delle immagini) lo sapeva bene.
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