A cento anni dalla morte di Giovanni Pascoli non mancheranno le iniziative in memoria del nostro ultimo poeta dell'Ottocento e primo del Novecento. La casa editrice Nottetempo ha appena ripubblicato il suo scritto di poetica più famoso,
Il fanciullino, a cui è stato aggiunto, come premessa, uno scritto di Giorgio Agamben.Da tempo l'originalità e l'importanza storica di Pascoli hanno trovato numerosi sostenitori. Solo qualche nome: Garboli, Nava, Mengaldo, Perugi, Capovilla, Santagata, Leonelli. Senza dimenticare i saggi ben noti di Debenedetti, Contini, Pasolini. Ma ricordo che ancora all'inizio degli anni Ottanta, nel corso di una polemica, uno dei più autorevoli critici strutturalisti cercò di liquidare i suoi avversari sferrando quella che ai suoi occhi doveva essere l'accusa più infamante: i critici dello strutturalismo non erano altro che restauratori dell'estetica di Croce o, peggio, della poetica del fanciullino…«È dentro di noi un fanciullino»: apre così Pascoli il suo saggio del 1903. E questo fanciullo, anche quando non parla e si nasconde, continua a restare identico a se stesso mentre l'individuo cresce e invecchia. I suoi occhi e la sua voce, la sua capacità di meravigliarsi e di emozionarsi sono la fonte di ogni vera poesia. L'adulto si socializza, si convenzionalizza. Recita la sua parte accettando le regole della comune indifferenza. Ma lo squillo di quell'infantile campanello interiore, quel «tintinnio segreto» i poeti continuano a sentirlo.Quel fanciullo perpetuamente capace di «stupore» e di «curiosità» altera le dimensioni reali per vedere meglio le cose, per scoprirle ogni volta di nuovo. «Il nuovo non s'inventa: si scopre» dice Pascoli. E il più intenso sentimento poetico «è di chi trova la poesia in ciò che lo circonda». La sola utilità morale e sociale del poeta è in questa capacità di meravigliarsi.«Ma noi italiani» aggiunge Pascoli «siamo, in fondo, troppo seri e furbi, per essere poeti». E la serietà dei furbi, come sappiamo, è un pericolo pubblico (lo è ormai perfino in poesia).