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La poesia giocosa e surrealista del “Pulitzer” Carl Sandburg

Cesare Cavalleri mercoledì 3 gennaio 2018
Finalmente è disponibile una traduzione integrale dei Chicago poems di Carl Sandburg, poeta americano importante, finora solo antologizzato in italiano. Vi ha provveduto Franco Lonati, che ha firmato anche un esauriente profilo bio-bibliografico, nella collana Fragmenta, diretta da Francesco Rognoni, per Sedizioni-Diego Dejaco editore (pagine 376, euro 29,99).
I Chicago poems apparvero nel 1916, avallati in copertina da un ampio ed entusiasta commento critico di Edgar Lee Masters, consacrato dal successo dell'Antologia di Spoon River pubblicata l'anno prima. In effetti, la sintonia con Masters è sensibile, ma Sandburg non scrive epitaffi autobiografici di defunti, bensì elogi a luoghi e persone della sua città, ben viva. C'è anche una sezione dedicata alle “Ombre”, le prostitute urbane verso le quali il poeta prova compassione, mentre ne deplora i clienti. Viene in mente la canzone L'ombra, sullo stesso argomento, cantata da Marisa Colomber al Festival di Sanremo 1955 (qualcun altro se ne ricorda?) e da Jula De Palma. Arrivò sesta.
A proposito di canzoni, Sandburg - che aveva imparato a suonare la chitarra da Andrés Segovia - collezionava canti folkloristici ed era ammirato, senza contraccambio, da Bob Dylan. Nella sua premessa, Francesco Rognoni azzarda l'ipotesi che la giuria del Nobel abbia premiato Dylan ricordandosi dell'ascendenza svedese di Sandburg (Sandberg, all'anagrafe). Ma allora avrebbe fatto meglio, a suo tempo, a premiare Sandburg, quando era lecito dubitare che Dylan fosse un poeta.
Carl Sandburg (1878-1967), oltre che poeta, è stato giornalista (tre volte premio Pulitzer) e storico: sua è la biografia di Lincoln, in sei volumi. Venne candidato due volte alla presidenza degli Stati Uniti, una volta dai democratici, l'altra dai repubblicani, candidature che egli assennatamente declinò. Di tendenze socialiste, Lonati giustamente ricorda che la sua poesia può richiamare i quadri di Pellizza da Volpedo. Ma fece in tempo a lambire l'imagismo di Ezra Pound che, come sempre, generosamente lo incoraggiò. Non si può fare a meno di notare un'eco poundiano nella poesia Metro di Sandburg: «Laggiù fra muri d'ombra / Dove leggi ferree insistono, / Le voci della fame scherniscono. // Gli stanchi viaggiatori / Con le spalle curve e umili / Gettano la loro risata nella fatica». Pound, tre anni prima, aveva scritto, da una stazione della metropolitana parigina, con la levità di un haiku, i due famosi versi: «Questi volti apparsi nella folla; / petali su un ramo umido e nero».
E imagista è anche Fog, che Rognoni/Lonati considerano la più rappresentativa poesia di Sandburg, tanto da riprodurla nella quarta di copertina: «The fog comes / on little cat feet. // It sit looking / over harbor and city / on silent haunches / and then moves on». Lonati traduce: «La nebbia avanza / su piccole zampe di gatto. // S'accuccia a osservare / il porto e la città / su terga silenziose / e poi se ne va». Personalmente, «little cat feet» l'avrei tradotto semplicemente «zampine di gatto» o, forzando, «zampe di gattino»; «terga» è troppo solenne per un gatto. Risulterebbe così: «Giunge la nebbia / su zampe di gattino. // Accosciata in silenzio / sorveglia / il porto e la città; / poi se ne va».
Lonati riporta le 38 definizioni «giocose e surrealiste» di poesia che Sandburg scrisse nel 1928 in Good Morning America. Ne trascrivo alcune: «22. La poesia è un finto grido per aver trovato un milione di dollari e una finta risata per averli persi; 23. La poesia è il silenzio e il discorso fra la radice bagnata di un fiore che lotta per sopravvivere e il bocciolo soleggiato del medesimo fiore; 36. La poesia è il raggiungimento della sintesi fra i giacinti e i biscotti; 38. La poesia è la cattura di un'immagine, di una canzone, o di uno stile in un deliberato prisma di parole».