La poesia di Carotenuto, itinerario interiore fra sogni reticenti
La collina dei martiri è Montmartre perché anticamente, dove ora incombe la basilica del Sacro Cuore, pare ci fosse un tempio dedicato a Marte, poi cristianizzato in Mons Martyrum dato che in francese antico Martre sta anche per Martyr. Peraltro, san Dionigi, primo vescovo di Parigi, sarebbe stato decapitato proprio a Montmartre, insieme ai compagni Rustico ed Eleuterio. Comunque, vigente la secolarizzazione, Montmartre è ormai celebre più che per le vestigia religiose, per la bohème degli artisti della Belle Époque (Utrillo, Pissarro, Toulouse-Lautrec, Van Gogh, Modigliani, Picasso), così come Saint-Germain des Près è legato agli esistenzialisti del secondo dopoguerra, intorno alla lugubre coppia Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir.
Carotenuto non canta il Moulin Rouge o Le Chat Noir: la sua Montmartre, nella poesia della prima parte del libro, ha «scale marce», un «cortile cieco», un «antro di mobili in formica senza tempo». Montmartre è tutta nella seconda parte, in prosa poetica, ed è la storia di un'ascesa semmai purgatoriale, «un'ascesa tutta urbana e notturna. Di luna e di magnolie», «un'ascesa di frammenti raccolti, cocci vari di un'umanità dispersa e ritrovata nella stessa notte».
L'inizio è in terza persona, protagonista il ragazzo che «corse verso un mare di luci troppo forti», ma quasi subito la ricerca si sposta in soggettiva, e la citazione dai Fiumi ungarettiani («Questa è la Senna e in quel suo torbido / mi sono rimescolato e mi sono conosciuto»), sigilla il dato autobiografico e suggerisce una direzione. L'ascesa è faticosa e la meta non appaga, anche se sulle rampe si può incontrare l'angelo: la città resta «divoratrice di sogni».
È singolare la propensione del poeta per il degrado urbano, per la spazzatura non differenziata. Forse viene dagli studi accademici di Carotenuto, autore di un saggio sulla presenza contraddittoria di Francesco d'Assisi nell'opera pasoliniana. Fatto sta che il paesaggio di queste poesie richiama lo squallore del prato in cui fu ucciso il poeta delle Ceneri di Gramsci.
Le poesie della prima parte tematizzano Milano e Roma. Trasparente il richiamo quasimodiano in Milano, 4 agosto 2014: ma dove il Nobel 1959 (l'anno prossimo sarà il cinquantenario), in Milano, agosto 1943 intonava il lamento sulla città bombardata («La città è morta, è morta»), Carotenuto («Niente bombe / né tristi meridiane / sulla città deserta») riconduce una storia privata, di incontri e di sorrisi.
Roma è percorsa da Trastevere all'Isola Tiberina, al Ghetto, al Lungotevere, a Largo Arenula, al Gianicolo, e sempre con occhio al degrado, come nella Cassetta della frutta che sarebbe piaciuta a Francis Ponge: «In un angolo immondo di marciapiede / il passo si stupisce di geometrie inconsuete. / L'incastro nei vortici è sempre inatteso (…) I colli degli dei si ricongiungono / a rigagnoli di cartocci unti. / La città madre, sorniona, abbraccia tutto / nel suo grembo cadente».
Non ci sono regole metriche nelle poesie e nelle prose di Carotenuto: tutto scorre per assonanze in un dettato che Giuliano Ladolfi, nell'Introduzione, qualifica di «vero e proprio itinerario interiore, i cui gradi sono indicati allegoricamente negli incontri: i fiori (la bellezza), la coppia di innamorati (l'amore), il busto in piazza (la tradizione), il ritrattista (l'arte), la cattedrale (la trascendenza), la giostra e la birra (le illusioni), l'angelo biondo (la speranza), lo sguardo alla città sottostante (la saggezza)». Non tutto è così lineare, naturalmente, ma un bandolo bisogna pur trovarlo nella matassa dei sogni reticenti.