La poesia del Gran Pugile e la lezione di coach Pep
Alì era un genio, una specie di rapper degli anni 60-70, che aveva cambiato i paradigmi del suo sport e anche quelli della comunicazione. Così, queste due parole ispirate lì, da quel momento, e che vantano il primato di essere la più breve poesia del mondo, richiamano quei momenti magici che ancora lo sport, qualche volta, permette di vivere. Sono momenti magici, dunque non così frequenti, che corrispondono a quelle situazioni in cui tutti i componenti di una squadra, da colui che svolge il compito più umile all'atleta che occupa regolarmente le prime pagine dei quotidiani sportivi, si sentono ugualmente e completamente coinvolti e protagonisti del successo finale.
Un momento magico, dicevo, che non capita spesso. Quando succede è bene sottolinearlo. È successo la settimana scorsa, in Inghilterra. La cronaca calcistica ci racconta che il Manchester City, la squadra allenata da Pep Guardiola, vince il titolo della Premier League non giocando, in quanto, nel posticipo, gli avversari dello United di Mourinho perdono clamorosamente in casa. Insomma il City è campione, ma i giocatori hanno ricevuto, dopo la loro partita, tre giorni di riposo e non c'è modo di festeggiare insieme. Così, a metà della settimana scorsa, al rientro al centro di allenamento del City, Guardiola fa una cosa bella, semplice, non scontata. Chiede al suo braccio destro Manel Estiarte, (uno che viene definito il Maradona o il Michael Jordan della pallanuoto, campione olimpico con la Spagna nel 1996) che da anni lo segue nelle sue esperienze calcistiche, di radunare tutti, ma proprio tutti per un discorso. Il "tutti" di Guardiola include i magazzinieri, le donne delle pulizie, le segretarie, i giardinieri, i cuochi. Proprio tutti coloro che lavorano per il Manchester City, insomma. Guardiola si rivolge a loro dicendo che sta per fare il «discorso più semplice e contemporaneamente più difficile» della sua carriera. Le sue parole non sono solo di ringraziamento, sono di coinvolgimento. Riesce a trasmettere l'idea che quella vittoria (che lui letteralmente definisce: «L'essere semplicemente stati migliori di altre 19 squadre») sia passata attraverso gesti umili, mai raccontatati, spesso messi in secondo piano, magari perfino sottopagati. Una trasferta ben organizzata, una maglietta pulita, piegata e messa nel modo giusto nell'armadietto, l'erba del campo di allenamento tagliata esattamente all'altezza giusta, un piatto cucinato con maestria.
Guardiola è un coach che al suo staff, per prima cosa, impone di conoscere il nome di tutti i collaboratori del club dove lavora. Tre giorni di tempo, per farlo. Poi si arrabbia.
In un momento storico di (rinnovato) superomismo e di uomini soli al comando, ascoltare le parole, semplici ed efficaci, di Guardiola che trova il modo di ringraziare la signora delle pulizie facendola sentire decisiva per la vittoria della Premier League è come respirare a pieni polmoni aria fresca dalla cima di una montagna, guardando laggiù in fondo alla valle, quella cappa di smog che proprio non se ne vuole andare.
"Me, We": una poesia facile da imparare e che dovremmo recitare più spesso.