Capita di usare le parole come armature di pregiudizio, come corazze che soffocano l'istinto di bene. Succede con le persone, ed è gravissimo, ma anche con le cose. Se per esempio dico pietra, vengono in mente immagini di rabbia, di violenza, nel migliore dei casi di dissuasione armata contro potenziali abusi. Non è per forza così, e non si tratta solo di accompagnare il nostro vocabolo agli aggettivi “preziosa”, o “dura”, intesa come gioiello. La pietra, infatti, può essere un ricordo o un omaggio. A me ne regalarono una, bellissima, delle suore di clausura. Le avevo conosciute per lavoro, e si era creato un bel rapporto, tanto che qualche volta - se ero da quelle parti - bussavo al parlatorio. E mi colpiva la loro conoscenza del mondo fuori, libera da sovrastrutture, capace di pescare l'essenziale nelle situazioni più complesse. Quella pietra, dipinta a mano su un fondo celeste, era un segno di stima e amicizia per un giovane apprendista della vita, che voleva imparare a interrogare la realtà. E quante volte l'ho accarezzata nei momenti in cui è difficile credere che quel che fai abbia senso. Non era magica, se la sfregavi non usciva il genio, però sembrava di sentire il profumo dell'affetto, vero al punto che quasi potevi toccarlo. Una dolcezza unica, che non ho dimenticato più.