La piaga dei Governi che bloccano Internet
Ci hanno insegnato che la Rete non può chiudere. Ma Internet (anzi, l'Internet) è una Rete composta da reti. E queste ultime a volte si fermano. Non solo e non tanto per qualche guasto tecnico, ma soprattutto a causa di atti deliberati di censura da parte di governi.
Basta leggere l'ultimo rapporto di Accessnow e lo studio correlato di Jigsaw del gruppo Google che ha il compito di analizzare i flussi di Rete per farsi venire i brividi già dalle prime righe: «I blackout di Internet imposti dai governi sono in aumento a livello globale, con impatti devastanti sulle comunità colpite». E ancora: «Nell'ultimo decennio ci sono stati ben 850 blocchi intenzionali della Rete». Solo nel 2020, sono state registrate 469 interruzioni intenzionali che hanno colpito 70 Paesi, per un totale di oltre 98mila ore di connettività. E nel 2021 ce ne sono già state 50 in 21 Paesi, tra cui Etiopia e Myanmar. Quest'ultimo vanta un triste primato. «La sua è la chiusura di Internet più lunga della storia: è iniziata il 19 giugno 2019. Tuttora, dopo oltre due anni, le connessioni rimangono inaffidabili in tutto il Paese».
Il primo blackout a scopi censori è invece targato Guinea e risalirebbe addirittura al 2007.
Il primo obiettivo dei blackout messi in atto dai governi è ovviamente quello di censurare le opposizioni e le idee scomode. Su questo punto Jigsaw ha raccolto alcune testimonianze dirette in diverse parti del mondo. Questa arriva dall'Uganda: «Il governo ha ordinato un completo blackout di Internet alla vigilia delle recenti elezioni nazionali. Era una chiara mossa, come ha denunciato anche Amnesty, per mettere a tacere i pochi osservatori elettorali accreditati, i politici dell'opposizione, i difensori dei diritti umani, gli attivisti, i giornalisti e i blogger che stavano monitorando le elezioni». L'Iran, se possibile, ha fatto di peggio: «Ha bloccato la Rete per nascondere l'uccisione di 300 manifestanti civili e non permettere alle persone di denunciarla».
Il blocco voluti di Internet hanno anche risvolti economici. «Tra gennaio 2019 e giugno 2021, 228 grandi interruzioni decise in 41 paesi sono costate miliardi di dollari all'economia globale».
Come ha ben spiegato Marianne Díaz Hernández, attivista per i diritti digitali, intervistata nel rapporto, «quando i governi chiudono Internet, tutti gli elementi della vita delle persone ne risentono». Bloccare la Rete significa infatti non solo soffocare l'opposizione politica e la circolazione delle idee o impedire alle persone di inviare un sms o un WhatsApp, di leggere un giornale o andare sui social. «Significa anche limitare l'accesso all'istruzione, ostacolare l'assistenza sanitaria, fermare i bancomat, le carte di credito e i pagamenti digitali, creando pesanti danni al tessuto economico». Quando il Camerun «ha bloccato la Rete per 93 giorni nelle regioni anglofone, ha colpito pesantemente l'industria tecnologica del paese, costringendo alcune aziende a chiudere e a licenziare i lavoratori».
A volte rischiamo di darla per scontata, ma la libertà passa sempre di più anche dal digitale. E dobbiamo impegnarci perché sia tutelata anche lì.