La pena di morte e la testa del Battista
Non è opera che appenderemmo tanto allegramente nel salotto di casa, quella nota sui cataloghi come Testa del Battista. Non lo si farebbe nemmeno in quel di Monza ove il Battista è venerato proprio nel suo martirio, tanto che una bella testa di marmo del Precursore è offerta alla pietà dei fedeli lungo la navata destra del Duomo. Non appenderemmo un quadro così eppure, ogni giorno, a casa, attraverso televisione e internet, entrano immagini di questo tipo e forse anche peggiori.
Proprio alcuni giorni fa, mentre leggevo gli interventi di Papa Francesco sulla pena di morte, mi sono imbattuta in un filmato concernente l'assassinio di un prete copto, padre Samaan Shehata, avvenuto il 12 ottobre scorso al Cairo. Un video dai toni surreali, preso per caso da una camera di sorveglianza, che ha reso evidente l'urgenza di chiarezza e la preziosità delle parole forti del Papa. Quella sciabola che con tanta leggerezza e facilità interrompe la vita umana, mi ha fatto scorrere davanti agli occhi le infinite pene di morte che oggi sono impetrate. Guardando, poi, la faccia esamine di padre Samaan mi è tornata alla mente questa tavola di Bellini. Giovanni Bellini, fratellastro di Gentile Bellini, forse non avrebbe dipinto così la testa del Battista dopo l'esperienza che il fratello, maggiore di lui di 3 anni, fece alla Corte di Maometto.
Immagine: Testa del Battista, Giovanni Bellini, 1465–1470, Tempera su tavola, 28 cm diametro, Museo Civico, Pesaro
Maometto II, grande estimatore della pittura italiana, dopo le tensioni generate dalla conquista di Costantinopoli, riprese con Venezia i contatti commerciali. Chiese, così, alla Serenissma di inviargli pittori italiani di certa bravura, che dipingessero per lui vari soggetti fra cui il suo ritratto. Il 13 settembre del 1479 fu, dunque, inviato il Gentile e chissà con quale animo si avviò verso quell'incarico certamente lusinghiero ma anche assai rischioso. Ai 18 mesi trascorsi da Bellini alla Corte del Sultano dobbiamo il celebre ritratto di Maometto II.
Pochi sanno però che non fu la sola opera realizzata dal pittore veneziano in terra musulmana. Un dì, infatti, il Sultano commissionò al Bellini anche una testa di Giovanni Battista. Quando l'artista presentò il lavoro, Maometto II criticò il collo del Santo, che era, secondo lui, troppo lungo e poco fedele alla realtà. E poiché Gentile si mostrava restio ad accettare la critica, il Sultano si affrettò, in sua presenza, a sferrare un colpo di sciabola sul collo di un ignaro schiavo, onde il pittore si persuadesse dell'errore. Spaventato dalla barbarie Gentile Bellini si affrettò a ripartire portando con sé le onorificenze ottenute. Episodi simili sono oggi dimenticati e per trovarli occorre scartabellare negli antichi testi di storia dell'arte (come ad esempio la Storia della Pittura di Huard).
L'episodio insegna che il martirio (specie quello cristiano) è spesso, ahimè, frutto della facilità ad applicare in tanti paesi di matrice islamica, e non, la pena di morte e mai si finirebbe di elencare nomi e cognomi, ma basti Asia Bibi per tutti. Tuttavia non abbiamo a sollevare troppo repentinamente la nostra coscienza: la pena di morte è di casa anche in paesi come il nostro, occidentale e di consumata tradizione giudaica cristiana. Penso al dibattito sul fine vita e sull'aborto, penso ai milioni di embrioni congelati in attesa di giudizio. Non possiamo relegare il dibattito sulla pena di morte soltanto all'ambito giudiziario penale. La pena di morte pone a tema la dignità dell'uomo. Se questa viene riconosciuta, deve esserlo sempre: l'uomo ha diritto all'esistenza dal principio alla fine della sua vita.