La parola dell'anno è «fake news», ma andrebbe cambiata
Temo non ci sia partita. La parola dell'anno è «fake news», anche se non è una ma due parole. Il Collins Dictionary l'ha già scelta con qualche settimana d'anticipo.
Per capirne la portata sul web, se si cerca «fake news» su Google, il motore di ricerca ci restituisce ben 36 milioni e 500 mila pagine che contengono a diverso titolo questo termine.
DataMediaHub – che è una delle realtà più significative che analizza i media – ha pubblicato ieri uno studio, in collaborazione con Waypress su quanto se n'è parlato sui giornali italiani (su carta e online). Scrive Pier Luca Santoro su DataMediaHub: «Complessivamente le citazioni sono state oltre 10mila sulla carta stampata e ben 166mila nell'omologa versione online delle testate monitorate».
Diciamoci la verità: se n'è parlato così tanto (non solo sui giornali) e spesso persino a sproposito, che quasi siamo stufi di sentire l'espressione «fake news». Che si tratti di «false notizie» l'abbiamo capito tutti. Così come (forse) abbiamo capito che esistono dal 1517, cioè da mezzo millennio. Il digitale, i social le hanno solo rese più facili da far circolare ma anche da smascherare. Così come i social hanno fatto emergere l'odio (anche quello represso) che da tempo alberga nella nostra società. L'hanno reso visibile, non creato.
Perché la Rete, il web, i social sono un mezzo. Che può essere usato anche molto male, ma dietro il quale ci sono sempre delle persone, non delle realtà astratte. Perfino i famigerati «algoritmi», ai quali tendiamo a dare la colpa di ogni nefandezza digitale e dai quali vorremmo la soluzione per (quasi) tutto, sono compilati da persone, dietro precise istruzioni pensate e impartite da altre persone.
Persino nello stigmatizzare le «fake news» quest'anno si è fatta una gran confusione. C'è chi nel calderone ha messo anche la satira e la parodia, i contenuti diffusi in maniera imprecisa per leggerezza o per fretta, i veri e propri impostori, che fabbricano contenuti appositamente falsi per screditare qualcuno e persino le correlazioni errate, non basate su prove sufficienti.
Per questo Claire Wardle e Hossein Derakhshan in un rapporto pubblicato dal Consiglio d'Europa hanno proposto di cambiare il termine da «fake news» in «information disorder», così da sottolineare che il problema vero è «l'inquinamento dell'informazione».
Anche la Media Editor del Washington Post, Margaret Sullivan, ha chiesto di mettere in soffitta il termine «fake news», proprio perché di per sé fuorviante. «Le differenze tra una bufala creata ad arte e un errore giornalistico, per esempio, sono notevoli e vanno affrontate in modi differenti».
C'è un punto del lavoro di DataMediaHub che dovrebbe interessarci molto, come giornalisti e come lettori. Quando Santoro conclude: «La deriva delle "fake news" viene spesso usata dalle testate giornalistiche per concludere che la responsabilità sarebbe dei lettori». Della serie: se ci credete, se le diffondete, se "abboccate" la colpa è vostra e solo vostra. «I media – conclude Santoro – sono l'unica realtà che si accanisce contro i propri "clienti"».
Allargando l'orizzonte, uno dei problemi che affligge il nostro tempo è pensare che la colpa (di qualunque cosa) sia sempre degli altri, di qualcun altro, di qualcosa d'altro (algoritmi, intelligenza artificiale, "macchine infernali").
Noi non sbagliamo mai. Noi giornalisti, noi lettori, noi elettori, noi persone non sbagliamo mai. La colpa è sempre degli altri.
Basterebbe un piccolo, grande sforzo da parte di tutti e la parola del 2018 potrebbe diventare «responsabilità». E al posto di« fake news» e «information disorder» potremmo «solo» parlare di buona e cattiva informazione; di giornalisti e di spacciatori di bufale.