Non di rado, quel che ci pare più insignificante rivela, con nostra sorpresa, un interesse che in un primo tempo non avevamo percepito. Il paesaggio della nostra quotidianità è pieno di cose così, cose di cui non ci rendiamo conto, nel ritmo trafelato con cui ci muoviamo, ma nei cui confronti comprendiamo, al nostro risveglio, di avere un debito. Una panchina dei giardini, per esempio. Là seduti, noi riposiamo, ci sottraiamo per qualche momento alla confusa frenesia, ci apriamo al silenzio e alla contemplazione, o semplicemente ci stiracchiamo al sole, a occhi chiusi, aspirando l'odore di un tempo ritrovato. Visto da una panchina, il mondo sembra acquistare una fisionomia differente. Abbracciamo margini dimenticati della vita, ci mettiamo in ascolto di zone periferiche, ma necessarie, guardiamo il colore di altre voci. E avvertiamo che la gioia si avvicina a noi come una foglia portata dal vento. Una panchina dei giardini può sembrare un oggetto inessenziale. Eppure ben rappresenta tutte quelle cose che ci aiutano a riorganizzare non solo il visibile, ma il nostro stesso modo di vedere. A modo suo, si offre come teatro per la costruzione di noi stessi. Penso, per esempio, alle panchine che Van Gogh dipinse: alcune sembrano la continuazione della natura, altre, una barca o un tappeto volante.