Non voglio dire che sullo sfondo ci sia un Don Rodrigo, anche se molti tifosi napoletani ingrati così dipingono Don Aurelio De Laurentiis; e tuttavia Don Rafè Benitez assume sempre più il ruolo di un Don Abbondio costretto - lui, ormai vaso di coccio - a viaggiare con tante facce di bronzo. Ieri, invitato a parlare di Calcio Italiano, ha disertato l'incontro con Antonio Conte facendo sapere che lo fermavano a Napoli “impedimenti dirimenti”, ovvero impegni inderogabili - versione Don Abbondio 2014 - come il prossimo confronto di campionato con - ohibò - il temibile Parma, sedotto da Ghirardi, abbandonato a una Anonima Petroli e intanto relegato all'ultimo posto della classifica. In sé e per sé la rinuncia al summit di Milano nunn'è peccato, come direbbe Peppino di Capri: son mancati altri importanti Signori della Panca; e tuttavia allarga l'antica frattura fra Don Rafè e l'italica pedata, all'origine dei suoi guai napoletani, costruiti con cinica pazienza sull'assunto zemaniano che la difesa è un'offesa al calcio. Lo avete visto spesso - è ormai un eroe televisivo - esibire l'aria soddisfatta e paciosa (almeno fino all'incontro con il Milan) di chi guadagna bene, mangia benissimo e sta amatissimo (almeno fino all'incontro con il Milan) in una città fascinosa, crogiuolo di passione e allegria, che lo ha subito ribattezzato Maestro. Almeno fino all'incontro con il Milan: e infatti adesso tutti vogliono sapere cos'abbia scritto, in panchina, Don Rafè, durante quei patetici novanta minuti che Higuain e compagni han disertato consentendo ai rossoneri di spacciarsi per fenomeni davanti a un Napoli litigioso, rinunciatario e mal posto in campo. A Partenope si dibatte sul titolo di quell'operetta di panchina scritta a San Siro; prevale la citazione di Silvio Pellico, “Le mie prigioni”, dove non si parla ovviamente dello Spielberg ma di Castelvolturno, eppur con la stessa evidente disperazione; oppure, “Il buio oltre la siepe”, immaginando che la siepe/barriera sia formata da Albiol, Koulibaly e altri Piedi Perduti; per non dire “Ultimo tango a Soccavo”, secondo crescente malizia e volontà popolare. Un anno fa Don Rafè era presente in effigie nei presepi di San Gregorio Armeno oggi popolati soprattutto di asinelli: ciò che all'alba di un nuovo anno resta di una squadra capace di esibire tuoni e fulmini e bomber più d'ogni altra, tuttavia tradita da un atteggiamento di Benitez da talebano antitattico, fissato su un modulo anche senza averne gli interpreti adatti, rigorosamente disinteressato alla cultura calcistica nostrana che l'avrebbe spinto a chiedere al patron non solo un fulgente Gabbiadini (peraltro eccellente di 'sti tempi) ma almeno un difensore e un centrocampista-baluardo di grande personalità, possibilmente italiano, a far da leader sul campo e nello spogliatoio, uno Juliano o un Bruscolotti - per intenderci - conservatori e trascinatori insieme di una squadra senz'anima. Dicono che Don Rafè attenda la Supercoppa del 22 con la Juve per decidere se restare (vittoria) o dare le dimissioni. Ma non ci credo. Perché - come direbbe Lotito - pecunia non olet. Eppoi De Laurentiis può anche arrabbiarsi, fare il viso dell'armi, ridurre il suo fenomenale mister a tremante Don Abbondio ma non dirà mai «Sorry, mi sono sbagliato». Non è nel suo genere. Aspetta il prodigio del 22 per produrre un cinepanettone di successo - cosa d'altri tempi - dal titolo “Natale in Qatar”.