«Dio non ci donerà la pace. Insegnerò a mio figlio la parola “compromesso”». Così parla della pace lo scrittore e regista israeliano Etgar Keret (Corriere della sera, venerdì 11). Non è pessimo, ma un atteggiamento di resa totale dinanzi alla prospettiva ideale che dovrebbe essere lo scopo di ogni israelita, anzi di ogni essere umano. "Shalom", pace è infatti, come dice il Talmud, "il nome di Dio": «L'intera Torah è per l'amore di shalom» e tutta la Scrittura ebraica è un discorso sulla pace come obiettivo del popolo di Dio antico e nuovo. Lo ha confermato il Figlio di Dio: «Vi do la mia pace ... Non come la dà il mondo, io la do a voi». Resta dunque valido il tema della XV giornata mondiale della pace (1982): un «dono di Dio affidato agli uomini». Keret, invece, parla di «qualcosa che saremmo felicissimi di ricevere in dono senza dover pagare nessun prezzo e dare nulla in cambio… Dio non ci darà nessuna pace e saremo noi a dover fare uno sforzo per ottenerla. Se ci riusciremo, né noi né i palestinesi l'avremo ricevuta in dono. La pace è per definizione un compromesso tra due parti… Si dovrebbe smettere di usare la parola “pace”, che da tempo ha assunto un significato trascendentale e messianico e sostituirla con “compromesso”». Sarebbe la resa: Dio il dono l'ha già fatto e agli uomini non chiede nessun prezzo e niente in cambio. Attende solo la loro buona volontà. Nella Bibbia, shalom indica giustizia, completezza, benessere, niente bisogni e compromessi, solo gioia tale che il Creatore si compiaccia degli uomini. Shalom, insomma, non è un baratto, un commercio, ma il modo in cui l'umanità dovrà realizzarsi sulla terra: quello che i profeti hanno annunciato e che noi tutti, insieme, dobbiamo raggiungere. L'incontro di preghiera cui papa Francesco invitò i capi dei due popoli in guerra fu un momento iniziale di autentica Shalom. Purtroppo l'attuale conflitto lo sta vanificando. IL CONTROLLORESecondo uno dei più noti controllori dell'ortodossia cattolica (A. G., un buon cristiano, tutto sommato, anche se si è assunto il compito di salvare la Chiesa dal Papa), Francesco sarebbe «il temerario che prima o poi tenterà di cambiargli [a Dio] la fede sotto il naso» e intanto lui «si acquatta dietro il muretto del prossimo Sinodo» e «si mimetizza nelle desolate periferie esistenziali» per preparare «qualche pagina magisteriale in cui sia messo nero su bianco che tutto è definitivamente cambiato». La cosa che più stupisce è che queste allucinazioni sono pubblicate su un giornale colto e dotato di senso critico come Il Foglio (martedì 8) e da un uomo intelligente come Giuliano Ferrara. Risparmiando ai lettori il resto di questi incubi diurni, conviene citare le elucubrazioni di Libero (venerdì 11) che da un parallelo tra la finalissima Argentina-Germania e «la sfida tra il Santo Padre titolare e quello che si è messo in panchina», ovvero «tra l'ultrà del San Lorenzo e il teologo del calcio» (?). «Il 13 luglio», profetava Miska Ruggeri, il giornalista e tennista autore di questi paragoni, «di Papi ne resterà soltanto uno. Alla faccia dei dibattiti teologici su chi sia il vero pontefice, lo deciderà la dea Eupalla», vale a dire la figura immaginaria ideata, 50 anni e più fa, dal campione di giornalismo sportivo Gianni Brera, che rivoluzionò il linguaggio dello sport. Crisi anche del giornalismo odierno e nostalgia dei giornalisti di quei tempi…AI 23 LETTORIAlla vigilia del Solleone auguro ai miei ventitré lettori una buona vacanza per rifarsi della fatica di leggere questi “Controstampa”. Ci ritroveremo domenica 24 agosto.