La nostra speranza non finirà in pasto ai corvi
L’artista danese August Friedrich Schenck scandaglia i
rapporti umani attraverso la metafora degli animali. In uno dei suoi dipinti,
un panorama innevato e freddo con un cielo plumbeo esprime fortemente la
sensazione di angoscia di fronte alla morte. Angoscia, del resto, è il titolo
stesso dell’opera. Una pecora madre sta al centro della composizione,
statutaria. Le zampe, affondate nel suolo innevato, vogliono proteggere ancora
un poco il giovane agnello che appare senza vita. Ignoriamo la causa della
morte, vediamo solo un rigolo di sangue che traccia la neve. Capiamo che la
pecora non si arrende alla sconfitta, il fiato disegna una colonna di vapor
acqueo nell’aria che racconta il suo grido, il suo pianto. Attorno, corvi, come
avvoltoi, attendono che la madre abbandoni la preda, ma essa la difende,
sperando contro ogni speranza che il figlio torni a vivere. Scorgiamo in questa
pecora, come in filigrana, l’uomo ferito dalla morte di coloro che gli sono
cari. L’uomo che ha in sé il germe dell’eternità e vorrebbe gridare a chi ama:
tu puoi non morire! Eppure accade ora di vedere, a tratti, che per qualcuno non
è cosi. Qualcuno di fronte alla morte ha mollato la presa, si è arreso, l’ha
accettata come componente normale dell’esistenza, anzi ha deciso di
programmarla per sottrarsi alla morsa del dolore o dell’incognita. Così mi
appaiono, in fondo, i corvi di Schenck: avidi nello sfruttare al minimo le
occasioni, rapaci, appunto, per nulla scossi dalla determinazione fiera di
quella madre a salvaguardare il suo piccolo fino all’ultimo respiro e anche
oltre. Oltre la morte. No, quel piccolo non sarà abbandonato in pasto ai corvi,
non finirà inghiottito dalla neve come dal nulla. Egli vivrà nella memoria di
questo grido materno e di quella zampa protesa a preservare il suo corpo
esanime.
Viene in mente il cipresso di van Gogh nella notte stellata,
dipinto quasi negli stessi anni. Anche quello è un grido di speranza che sale
verso il cielo ingombro di stelle. In questa tela di van Gogh il cielo sembra
essersi fatto così basso e le selle rotolare così gioiose per quella vita che
esse conoscono ma che, in fondo, ignorano i parrocchiani di Saint Remy! Anche
se la piccola chiesa lancia nel cielo il suo campanile come certezza di una
vita senza fine, non sempre le sue pietre parlano al cuore di chi, come van
Gogh, dispera. Per questo il pittore guarda il panorama notturno come dall’alto
del cipresso. Quel cipresso segna il cimitero, il luogo della memoria, il luogo
di chi non accetta la fine della vita come l’approdo a un nulla senza speranza.
Di questo c’è bisogno. L’avventura dell’homo sapiens, del resto, incomincia con
un cimitero, la civiltà comincia dall’uomo che vuole conservare la memoria
della vita in attesa di una risposta definitiva. Molto più noi non possiamo
rassegnarci a un di meno, non possiamo come i corvi sfruttare la vita al
massimo possibile. Deve salire al cielo il nostro grido, simile a quello della
pecora di Schenck, deve verdeggiare nel cuore la speranza, come verdeggia il
cipresso di van Gogh: qualcuno ha attraversato la morte e ha dato all’uomo la
certezza dell’eternità. È Cristo l’agnello mansueto che ha accettato la morte,
ridonando all’uomo la vita.Immagini
August Friedrich Schenck, Angoscia, 1880, olio su tela cm 151 x 251, Collezioni internazionali della Galleria Nazionale di Victoria, Melbourne. >
>Vincent van Gogh, Notte stellata 1889, olio su tela, cm 73 × 92 Museum of Modern Art, New York>