Il Maestro aveva detto: Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un'altra. Eravamo diventati particolarmente obbedienti a questa parola. La nostra missione si conformava sempre di più al Vangelo della Fuga. Gli Asti ci avevano fatto intravedere qual era il supplizio riservato a chi si rifiutava di accoppiarsi con le loro donne. Il boia era un'enorme matrona che, a occhio e croce, doveva pesare sui 300 chili. Le sue mammelle, senza esagerare, erano di cinquanta chili l'una e dico l'una perché pareva che ce ne fossero tre. Ci avrebbe stretto tra quelle mammelle fino a soffocarci o a spezzarci l'osso del collo. Perciò ci precipitammo verso la quarta città quasi certi che ne saremmo ancora una volta scappati via col diavolo alle calcagna o il buon Dio davanti a noi. Come era possibile che in Metagonia coabitassero popoli così diversi senza guerre né commistioni ? Era quello il grande enigma - e per noi che vivevamo nell'epoca dell'uniformizzazione tecnologico-mercantile, quasi un feroce scherzo della Provvidenza. Tre giorni di cammino, e i costumi cambiavano completamente, come se stessimo passando da una specie animale a un altra, dai pesci agli uccelli, ovvero dagli insetti ai mammiferi, e quei salti confermavano l'antica osservazione di Plutarco : «Tra un animale e l'altro non si trova una distanza tanto grande come tra un uomo e un altro uomo». Questa osservazione valeva per la distanza tra le etnie, ma poteva valere anche per la distanza tra gli individui. Sebbene fossimo tutti e due europei e della stessa congregazione religiosa, fratel Ugo ed io eravamo molto lontani tra di noi. C'è un meccanismo sociale molto noto: due compatrioti che a casa loro si ignorano si sentono molto vicini in un paese straniero; nemici nel loro villaggio in Provenza, diventano amici a Singapore. Ebbene, questo meccanismo con noi non aveva funzionato. Al contrario: il modo giusto per evangelizzare i popoli sconosciuti era un nuovo argomento di divisione. Gli Asti mi avevano spinto a riflettere su queste questioni di distanza. Che un genitore, che un concittadino, possa essere più incompatibile con il nostro umore di un perfetto sconosciuto, l'esperienza familiare ce lo dimostra. E anche quasi tutta l'avventura etnografica. Quanti francesi se ne sono andati dai Kukukuku della Nuova Guinea perché non sopportavano più i loro vicini della stessa cultura? Se ne potrebbe quasi dedurre questa legge disgraziata: più un essere ci è lontano, più è facile colmare la distanza con l'immaginazione; più ci è vicino, più il reale ci fa sperimentare la sua differenza irriducibile - e il suo alito cattivo. Trattandosi di fratel Ugo, ero tuttavia tornato a una migliore disposizione d'animo. L'avevo giudicato male. Avevo creduto che si crogiolasse nello stupro quando invece si sforzava di insegnare la devozione. E poi, se ero sopravvissuto fin a quel momento, era perché lui sapeva pescare dei pesci e fare un fuoco, capacità a cui i miei successi universitari mi avevano impedito l'accesso… Mi risolsi a confessarmi da lui. Eravamo preti in fin dei conti. Non disponevamo più del pane e del vino per celebrare la messa, ma potevamo concederci ancora reciprocamente il sacramento della penitenza. Decisi dunque di abbassarmi confessandogli tutto l'odio che avevo covato contro di lui per ricevere così della sua bocca repellente il perdono di Dio (mi faceva orrore non solo il suo labbro inferiore spesso e protruso, ma anche il suo modo di masticare). Sarebbe stato il modo di mostrargli la mia fiducia e la mia umiltà. E anche il mio coraggio. Dire a chi ti sta confessando che è lui l'oggetto principale delle nostre trasgressioni alla carità, non è facile, ve lo giuro. A certo punto ebbi anche impressione di somigliare alla sartina che confessa che il suo peccato mortale è di essere innamorata del prete davanti al quale si è messa in ginocchio. Stavo cadendo nella stessa ambiguità, anche se in negativo? No, ero sincero, grosse lacrime mi rigavano le guance. Nel fondo di me stesso speravo che avesse parole indulgenti come: «Non è grave. È comprensibile». Ma faceva solamente tentennare la testa con una freddezza impenetrabile. E, quando mi chiese di confessarsi a sua volta, mi aspettavo di sentirmi dire i suoi sentimenti nei miei confronti, la sua avversione, la sua difficoltà ad amarmi a causa della sua durezza di cuore. Ma si accusò solamente di peccatucci insignificanti, che non mi riguardavano. Gli diedi l'assoluzione, ma ero profondamente deluso, se non scandalizzato. Gli avevo spiattellato tutto sulla mia esasperazione, e lui niente, osava pretendere di non aver nulla da rimproverarsi contro di me. E così ero persuaso, mentre tracciavo il segno della croce sulla sua testa bassa, che avesse appena commesso un peccato di omissione. Non c'è bisogno di precisare che neppure queste confessioni reciproche erano riuscite ad avvicinarci, esattamente come il nostro esilio comune in terra straniera. A sera, avevamo lasciato la foresta e posto il bivacco ai piedi di una montagna; recitammo i vespri alternando i versetti. Quando fratel Ugo pronunciò: Per te abbiamo respinto i nostri avversari nel tuo nome abbiamo annientato i nostri aggressori, o ancora: cani mi hanno circondato; una folla di malfattori m'ha attorniato, credetti di intuire da un'inflessione della sua voce che approfittava del salmo per trattarmi da avversario, mascalzone e cane. Gli risposi dunque calcando sul versetto “Sono insorti contro di me gli arroganti” .
E così, ci stavamo insultando per mezzo della preghiera. Ma le apparenze erano salve. Un osservatore esterno avrebbe visto due religiosi in armonia che cantavano le lodi dell'Altissimo.
(15, continua. Traduzione di Ugo Moschella)