Paolo Isotta è il critico musicale del Corriere della Sera, ma non è solo un critico musicale: sa di letteratura, di storia, di arti visive, di architettura, e scrive in un barocco napoletano avvolgente e provocatorio, senza esclusione di colpi. È di quegli scrittori che, a leggerli, ti fanno sentire intelligente.A sessantaquattro anni, Isotta ha pubblicato la sua autobiografia, prematura e sfacciata, intitolandola La virtù dell'elefante (Marsilio, pagine 592, euro 21,50). Polemista spietato, Isotta si è attirato controcritiche e persistenti ostilità, al punto che la Scala, lo scorso anno, l'ha dichiarato «persona non grata», cosicché egli adesso assiste agli spettacoli col biglietto pagato dal Corriere e non con l'accredito stampa come prassi giornalistica vorrebbe. Lo credo bene. Uno che scrive: «Daniel Barenboim è già un cattivo direttore, ma alla Scala, completamente fottendosene perché il suo cuore batte a Berlino, dà il peggio di sé», non può pretendere di essere gradito alla Scala, e infatti Isotta, che ha perfettamente ragione, non lo pretende. Il critico, tuttavia, ha solide spalle, tanto da aver tratto il titolo del libro dal motto di Domenico Malatesta, signore di Cesena: "Elephas indus culices non timet" (L'elefante indiano non teme le zanzare).Paolo Isotta è stato "inventato" da Indro Montanelli, che alla fondazione del Giornale diede fiducia a quel ventiquattrenne, pozzo profondo di cultura musicale, che gli era stato suggerito da Mario Praz. Isotta gli fu ben grato, ma non gli risparmia critiche. Lo accusa di viltà per aver costretto Piero Buscaroli a firmare con lo pseudonimo Piero Santerno, e non gli perdona di aver abbandonato Il Giornale per fondare l'effimera Voce lasciando in mezzo alla strada i giornalisti che l'avevano seguito, mentre per lui «avvenne un trionfale rientro al Corriere: vi tornò "da sinistra" dopo esserne uscito "da destra": con questo sputò sulla sua stessa vita».Come si vede, Isotta non è uno che le manda a dire, e l'autobiografia è anche uno spaccato di storia del giornalismo, oltre che un affresco di costume per tutti i personaggi che il critico ha incontrato, e un affettuoso tributo a Napoli, che Isotta ha nel cuore e sulle labbra, anche in lingua originale. Se l'ungherese Sándor Márai in Il sangue di San Gennaro (2010) aveva dato di Napoli un ritratto più vero del vero, Isotta, da autoctono, ne notomizza le viscere con allegria.Certamente non lo seguo quando racconta le performance erotiche sue e altrui, che deploro, ma basta dimenticare qualche paragrafo per godere di una navigazione nel mare della musica (non solo lirica) che ritempra e arricchisce. Isotta ama sfatare luoghi comuni come quello di dipingere Bach quale cantore della Riforma: invece «l'opera di Bach è controriformista e corrisponde a quella di Bernini e Borromini». Va anche detto che, nonostante tutto, Isotta si proclama cattolico, tratta con molto rispetto tutto ciò che concerne la Chiesa, e ha pagine devotissime su san Gennaro (che è anche nel sottotitolo: La musica, i libri, gli amici e San Gennaro) e su padre Pio.Non si trovano sfumature nel repertorio di Isotta: detesta il trio Luigi Nono, Claudio Abbado, Maurizio Pollini; considera (giustamente) Quirino Principe «il più grande mahleriano vivente», adora Riccardo Muti, il maestro Siciliani (lo nomina sempre così) e (forse troppo) Anita Cerquetti. Ha scritto un libro su Renata Tebaldi, e gira al largo da Maria Callas.Valorizza Leonardo Leo (1694-1744) e Antonio Caldara (1670-1736), ha in animo di scrivere un libro su Alessandro Scarlatti; disprezza i musicisti del Novecento, specie se di Avanguardia, ma salva, con pochi altri, Camillo Togni (1922-1993), di cui mi parlava con trasporto lo scrittore Alessandro Spina, che di Togni era amicissimo. Insomma, come tutti gli uomini di carattere, Paolo Isotta ha un cattivo carattere. Ma è eruditissimo e spiazzante.