La moda dei tatuaggi o t'inchini o la ignori
Mano alzata: caro il signor giornalista – bugiardo e pennivendolo, ma tanto io i giornali non li leggo – io i miei tatuaggi me li son fatti, e ancora me ne farò, per me, solo per me, per stare bene con il mio corpo. Così diranno alcuni ma è una bugia. Noi siamo esseri comunicanti. Comunichiamo sempre: nel modo in cui ci vestiamo, muoviamo, parliamo, guidiamo l'automobile, canticchiamo sotto la doccia, sempre. Anche il tatuaggio più nascosto è fatto per essere rivelato, come arma letale, al momento opportuno.
D'estate i corpi si spogliano e i tatuaggi vengono alla luce, tutti, non solo quelli sui polsi o alle caviglie (privilegiati dalle donne). Guizzano teneri delfini e ruggiscono tigri e leoni, spiccano il volo aquile con il becco sul collo e gli artigli sulle reni, arabeschi floreali avvolgono spalle e braccia, cuori trafitti restano infilzati sul petto, nomi di amati, amate, figli e figlie, date di nascita in prolissi numeri romani si allungano all'interno degli avambracci. Quello che sembra un gambaletto ortopedico scuro potrebbe essere un tatuaggio. Certe margheritine, con l'aumentare del volume della coscia dell'un tempo leggiadra fanciulla, si mutano in gerbere. Uno spettacolo, eccome, sul palcoscenico della spiaggia.
Ne è convinta anche la psicoanalista Alessandra Lemma (Sotto le pelle. Psicoanalisi delle modificazioni corporee, Cortina): «Siamo degli esseri guardati nello spettacolo del mondo, esposti ai pensieri e ai sentimenti degli altri, senza poterli controllare». Controllarli no, ma indirizzarli sì. Ci sono tatuaggi che vorrebbero indurre timore reverenziale, altri determinazione e forza, alcuni tenerezza e dolcezza, molti sono banali strumenti di seduzione, specialmente se una parte è visibile ma altri svaniscomo sotto il costume.
Poi si sa, ci si tatua per mille motivi. Un tempo il tatuaggio segnava un'appartenenza: a una banda, a un clan, a una etnia. Accade in parte ancor oggi. Un tatuaggio può essere promessa o minaccia, segno di appartenenza e di superiorità nei confronti dell'umanità che ne è priva, e che nella stragrande maggioranza dei casi non si sente per nulla inferiore né carente di alcunché. Il tatuaggio comunica, ma è una comunicazione debole perché senza memoria. Chi si tatua un numero, ad esempio, ha pensato a chi, due generazioni fa, veniva marchiato nei lager? È davvero passato così tanto tempo da rendere irrilevante la memoria dell'orrore, dell'uso omicida del numero tatuato?
Poi, alla fine, il tatuaggio in sé è comunicazione, riappropriazione del corpo, annullamento del corpo, amore per il corpo, disprezzo per il corpo, queste e le cento altre cose spiegate dalla psicologia. Ma oggi è ridotto soprattutto a una moda. Una banalissima moda. Mi tatuo perché altri lo fanno e, facendolo, mi sembra siano più guardati. E davanti alla moda o ti inchini o la ignori. O la assecondi docile per placare la tua ansia o la mandi a farsi un bagno, dove l'acqua è più blu.