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La misericordia ci conquista con la tenerezza materna È la lezione del «Padre Nostro»

Salvatore Mazza sabato 10 giugno 2017
Dire «Padre Nostro» è relativamente facile. È la prima preghiera, del resto, che Gesù stesso ha insegnato agli uomini, e che ripetiamo quasi sempre senza neppure pensare a quel «Padre Nostro». A cosa significhi, e che cosa comporti. Papa Francesco, mercoledì scorso, su questo «padre», che è attributo primo e centrale, c'è tornato un'altra volta. Spiegandoci ancora che Dio è «Padre alla sua maniera, buono, indifeso davanti al libero arbitrio dell'uomo, capace solo di coniugare il verbo amare». Un padre, no, anzi, di più: un «papà», ancora una volta sottolineando quell'intimità che lega indissolubilmente l'uomo al suo creatore, un papà «che non applica criteri di giustizia umana ma sente anzitutto il bisogno di perdonare». E ha commentato, papa Bergoglio: «Che mistero insondabile è un Dio che nutre questo tipo di amore nei confronti dei suoi figli!».
C'è una teologia infinita dietro queste parole. Nel tentativo costante di cercare di spiegare, di rendere intelligibile il senso di un amore assoluto chi si nutre da sé, che non ha bisogno né cerca di essere ricambiato per stendersi sulla fragilità dell'uomo, e persino sulla sua ribellione. In una delle catechesi più ricordate del suo brevissimo pontificato, Giovanni Paolo I parlò di Dio che è padre ma anche madre, anzi, «Dio che è papà e più ancora madre». Un concetto ripreso più tardi da tutti i suoi successori, Wojtyla, Ratzinger, e oggi Bergoglio, sempre per esprimere questa assolutezza d'amore incondizionato. «È tanta la vicinanza – disse un anno e mezzo fa papa Francesco – che Dio si presenta come una mamma, una mamma che dialoga con il suo bambino: una mamma quando canta la ninna nanna al bambino e prende la voce del bambino e si fa piccola come il bambino e parla con il tono del bambino al punto di fare il ridicolo se uno non capisce cosa c'è lì di grande... ma quante volte una mamma dice queste cose al bambino mentre lo accarezza, eh? Ecco ti rendo come una trebbia acuminata, nuova... Ti farò grande... E lo accarezza e lo fa più vicino a lei. E Dio fa così. È la tenerezza di Dio. È tanto vicino a noi che si esprime con questa tenerezza... La tenerezza di una mamma».
Precipitati in questo modo nel cuore del mistero di una misericordia che non arriviamo a comprendere, che quasi stordisce, rischiamo in ogni momento di restare intimoriti e interdetti di fronte a essa. Perché non ci arriviamo; perché, ha detto Francesco, «nessun padre di questo mondo si comporterebbe come il protagonista di questa parabola». O forse, qualche volta, perché si resta prigionieri di quello che si può definire il complesso del fratello maggiore del figliol prodigo. Il fratello che non capisce, proprio non ci arriva, perché il padre sacrifichi il vitello grasso per festeggiare il ritorno del figlio ribelle, mentre per lui, che si è sempre dimostrato obbediente e docile al genitore, tutt'alpiù è toccato qualche pollo. E questo lo autorizza a protestare, e a dire: «Sì, d'accordo, va bene la misericordia, però...».
Ma, e questo è il punto, la misericordia non ha nessun «però». Il mistero del Dio mamma e papà, del Dio «che mai si stanca di perdonarci, è alla fine proprio questo. E invece che borbottare, e spaccare il capello in quattro davanti a una misericordia così grande che neppure riusciamo a capirla, invece che giudicare quella misericordia, ergendoci al di sopra dello stesso Padre nostro, dovremmo semplicemente imparare a gioirne. E a condividerla, per quanto possibile, con ogni uomo e ogni donna».