È in sere come queste, quando loro sono fuori, che mi guardo attorno con una sensazione di irrealtà. Per quanto io vaghi con lo sguardo, non più un giocattolo in giro, né scarpe da ginnastica molto piccole abbandonate qui e là, né «La carica dei 101» che gira sul lettore Dvd per la centesima volta. Loro, sono grandi ormai.Ma, non so per quale scherzo della memoria, io mi ricordo stasera, come fosse ieri, l'istante in cui ho saputo di aspettarli, e, nettissime, le ore del parto; mi ricordo perfettamente dei primi passi, e dei salti nelle pozzanghere – mentre fatti di appena pochi mesi fa sfumano già, sbiaditi e remoti.Ci deve essere una ragione se la memoria delle madri conserva così intatti i primi anni dei figli. Forse di questa memoria c'è bisogno per creare quell'attaccamento che è necessario alla sopravvivenza della specie? O lo stesso thauma, lo stupore di avere messo al mondo un uomo, rende perenni i momenti in cui questa meraviglia sorgeva?Deve esserci una stanza nella nostra memoria, una camera del tesoro dove si conserva ciò che abbiamo di più prezioso; sono file accuratamente protetti, non cancellabili, tenuti sottochiave. (Perché, perdendo quelli, perderemmo noi stessi).E allora questa sera mi avventuro nella mia stanza segreta, e, come sfiorando cristalli, sfoglio le immagini che vi si affastellano disordinatamente. Tu, che, gattoni, velocissimo esploravi la casa nuova, riempiendo le stanze del rumore delle tue manine sul marmo. Tu, che con i tuoi occhi neri facevi impazzire le donne dietro ai banchi del mercato («Bel morettone!», ti chiamavano, intenerite). E tu, femmina, che a due anni già soppesavi i colori dei vestiti nei grandi magazzini, tendendo le mani a afferrare i più belli. Tutto è, in questa sera di estate del 2014, sbalorditivamente vicino e presente. Ma loro, sono fuori. Sono grandi.Non voglio però, nella mia stanza interiore, soccombere alla malinconia, che sussurra che il bello è sempre alle spalle. Naturalmente malinconica da sempre, sospetto ormai in questo sguardo una bugia. Non può essere, se il nostro destino è Cristo, che le gioie più grandi si accumulino polverose come vecchie cose in un solaio. Quelle gioie non possono mancare in paradiso; perché, altrimenti, il cielo sarebbe triste. Quelle gioie forse, intatte in un tempo fuori dal tempo, attendono, sospese, che il nostro tempo si compia: per donarsi di nuovo, liberate dalla caducità e dalla morte. Benedetto XVI ha promesso un giorno: «Niente di ciò che amiamo andrà perduto». E ora lo so, con una singolare sovrana certezza. In una pace che mi stupisce, questa sera, spero.