La vicenda delle elezioni presidenziali in Romania – annullate dopo il primo turno dalla Corte costituzionale di quel Paese per gravi violazioni alle regole di garanzia sul voto – ha riproposto in maniera traumatica una questione che si potrebbe provocatoriamente presentare così: come fa una democrazia a difendersi dall’abuso della democrazia? Il tema non è affatto nuovo, basti pensare alla genesi formalmente democratica di alcuni regimi totalitari del Novecento. Oggi però assume una valenza specifica perché la tecnologia ha moltiplicato all’infinito la possibilità di manipolare e condizionare le scelte degli elettori all’interno di uno Stato e anche dall’esterno, a opera di soggetti istituzionali stranieri o di oligarchi divenuti potenti talvolta più degli stessi Stati.
Quel che è avvenuto in Romania ci interessa da vicino (se n’è già occupato domenica scorsa su queste pagine Andrea Lavazza: shorturl.at/hhn8V ) perché si tratta di un grande Paese membro della Nato e dell’Unione europea. Nel primo turno il più votato era stato il candidato filo-russo di estrema destra Calin Georgescu, ma la Corte – che secondo la Costituzione ha il compito di assicurare «il rispetto del procedimento per l’elezione del Presidente» – ha annullato tutto e si ricomincerà da capo. Questo perché nella tornata del 24 novembre – argomentano tra l’altro i giudici costituzionali romeni – «la libera espressione del voto è stata violata dal fatto che gli elettori sono stati disinformati per mezzo di una campagna elettorale in cui uno dei candidati ha beneficiato di una promozione aggressiva, effettuata eludendo la legislazione nazionale in materia elettorale e sfruttando in modo abusivo gli algoritmi delle piattaforme di social media».
La materia è estremamente delicata perché in una democrazia annullare il voto popolare è comunque un’operazione che fa tremare le vene ai polsi e rischia di diventare un boomerang per la stessa democrazia. Ma non si può negare che il problema delle interferenze nella formazione del consenso sia reale e grave. È possibile arginare il fenomeno senza infilarsi nel vicolo cieco della censura? E chi dovrebbe vigilare sulle elezioni? Anche in Italia il dibattito è aperto, perché nessun Paese si può considerare al riparo. Il ministro della Difesa Crosetto ha ipotizzato la creazione di una struttura ad hoc contro la disinformazione e le fake news, e proposte in tale senso sono state depositate in Parlamento. Sui media c’è chi ha parlato di un’Alta Corte che dovrebbe avere caratteristiche di assoluta e riconosciuta imparzialità. Servirebbe una volontà convergente di tutte le forze politiche che invece sin d’ora appaiono divise, all’interno delle stesse coalizioni, con partiti e personalità che pubblicamente simpatizzano per i soggetti internazionali a cui viene addebitata la principale responsabilità delle interferenze. Se poi si pensa alla persistente difficoltà nella nomina dei giudici costituzionali di estrazione parlamentare (martedì si è registrata l’ennesima fumata nera) non c’è da farsi troppe illusioni sulla possibilità di un accordo su un organismo tutto da inventare. Resta tuttavia la convinzione che, al di là della pur doverosa ricerca di soluzioni tecniche e ordinamentali, il miglior modo per difendere una democrazia sia riempirla di contenuti positivi e renderla efficiente e giusta, rimuovendo – come chiede la Costituzione – gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini.
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