Ci sono addii impliciti, quelli che si consumano dentro di noi, senza che i nostri interlocutori, coloro che salutiamo e ai quali diciamo addio, lo sappiano. Ci sono altri addii, verbalizzati, detti, a lungo meditati; altri ancora, questi pure enunciati in modo chiaro e che invece irrompono di colpo, subitanei, definitivi, senza che in nessun modo noi li si abbia consapevolmente immaginati o desiderati. Esistono rotture salutari e altre di cui non riusciamo a farci una ragione, distacchi e separazioni da persone che sino a poco prima pensavamo per noi fondamentali, e che a un tratto si fanno per noi distanti, che improvvisamente ci preme dover salutare e congedarsi dalle quali è repentinamente imperativo. Non solo con persone, accade di rompere anche con luoghi, e situazioni: frangenti che lasciamo una volta per sempre e cui tuttavia non possiamo impedirci di continuare a pensare, ripensare e a ncora pensare, senza saper ricostruire il vero perché di ogni singola rottura.Su distacchi e addii riflette Duccio Demetrio, noto studioso di cultura e scrittura autobiografiche, nonché fondatore della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Lo fa in un piccolo libro dedicato al tema dei commiati (Nel silenzio degli addii, Mimesis) che proprio ieri, nel giorno dedicato alla memoria dei defunti, abbiamo presentato in queste pagine. Leggendolo, ci si fa chiaro come gli addii siano il risultato di spinte interiori, pulsioni cui è impossibile sottrarsi. Ma la cosa singolare, e che Demetrio è bravo a districare e mostrare, è come molte volte si tratti di rotture che avvengono nostro malgrado. Commiati inevitabili in ragione della assoluta spontaneità del loro compiersi. Dell’accadere di una fine (fine di un rapporto, con qualcuno, o con un luogo, o un contesto, o una intera età della vita) accade di accorgersi a malapena, solo a fatto compiuto, ad addio consumato. Con fatica distinguiamo quando si tratta di una conclusione naturale, e quando invece di una forzatura; quando di un sollievo e una liberazione, quando al contrario di un ostacolo ulteriore oltre a quello che ciò da cui ci stiamo separando rappresenta.Leggere il libro di Duccio Demetrio in queste settimane tanto dure, difficili, tanto poco umane per il mondo, fa riflettere anche sull’addio come atmosfera: come temperie. Perché nel tempo in cui il mondo appare aspramente cupo e divisivo, un senso di perdita aleggia, accompagnato da una tentazione a rompere: con chi non la pensa come noi, con quanto ci causa sconcerto, disappunto, dolore. Siamo abitati da una sensazione di continuo strappo, nel mentre avvertiamo un nesso tra il drammatico scatenarsi di violenza nel mondo, e congedi che ci preme celebrare. Allora è importante discernere l’imperativo a chiudere nel senso di invincibile pulsione personale, e una spinta a congedarci e dire addio dettata invece da una sensazione di intima angoscia. Se, come scrive Demetrio, i veri addii segnano «ineluttabili passi in avanti», bisogna mantenersi vigili su quelli che sono al contrario “falsi” addii: brusche rotture dettate da smarrimento e inquietudine profonda. Assistere alla guerra, seguire attraverso l’informazione quotidiani scenari di guerra, scatena dentro di noi guerre. Portandoci, anche, a “falsi” addii, rotture brusche come brusco e violento risulta e risuona tanto, troppo, intorno a noi.
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