Quando ero piccola, mio padre mi ripeteva che l'unica scuola davvero seria era il carcere, che solo dentro una cella si poteva studiare, concentrarsi sui libri, leggere. Per molto tempo, ho provato un senso di inferiorità di fronte al suo apprendistato di oltre otto anni nel chiuso di un carcere fascista. Lo invidiavo molto e mi dicevo che, privi come eravamo di un regime fascista, non sarei mai riuscita a farmi una cultura. Naturalmente, esistevano molti modi di interpretare quelle parole, e da adulta cominciai a darne altre letture. Voleva dire che solo la non-vita, l'essere fuori dal mondo, poteva darti la cultura e la conoscenza? O invece, voleva dire che solo la conoscenza contrastata, guadagnata con il sudore della fronte, scrivendo con il sapone sul vetro appannato per mancanza di carta, vedendoti rifiutare i libri e bramando fortemente di averli, poteva renderti la conoscenza tanto preziosa da fartela desiderare e da spingerti ad impegnarti con tutto te stesso per raggiungerla? E mi venivano in mente Bruno e Campanella, e i tanti libri da loro letti in giovinezza sguerciandosi sulla fievole luce delle lampade ad olio. Comunque, da privilegiata quale sono, ho un buon motivo per giustificare la mia ignoranza: nessuno mi ha mai impedito di studiare.