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La grande riforma a pezzi nell’epoca dell’astensione

Stefano De Martis domenica 16 giugno 2024
Premierato, autonomia differenziata, separazione delle carriere dei magistrati. Ciascuna delle tre riforme partorite dal governo – una per ogni partito della maggioranza – ha di per sé la capacità di modificare profondamente gli equilibri istituzionali della Repubblica. Anche quella che si presenta formalmente più circoscritta – la separazione delle carriere – va a incidere su uno snodo cruciale della nostra democrazia. Quale che sia il giudizio di merito su di essa, il suo potenziale di rottura rispetto all’esistente è estremamente elevato, come rivendicano i suoi stessi sostenitori. L’introduzione del premierato, poi, almeno nei termini in cui è stato definito nel testo della maggioranza, comporta un cambiamento sostanziale nella forma di governo. Si poteva percorrere un’altra strada, con esiti più efficaci e senza tante lacune e controindicazioni, ma tant’è. Anche in questo caso, smentendo gli iniziali tentativi di minimizzare, è stata la stessa premier a esplicitare la portata della “madre di tutte le riforme”. Quanto all’autonomia differenziata, la legge di revisione costituzionale che ne costituisce il presupposto è dell’ormai lontano 2001, voluta dal centro-sinistra con l’intento intrinsecamente lodevole di rilanciare la dimensione autonomistica della Repubblica, ma approvata frettolosamente a maggioranza per il non troppo celato tentativo di arginare la Lega bossiana allora emergente. Una riforma rimasta incompiuta e che per questo ha lasciato aperti varchi pericolosi. Da allora, comunque, pur potendosi procedere con legge ordinaria, le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” ipotizzate dall’art. 116 della Costituzione, così come modificato nel 2001, sono rimaste sul piano della teoria. L’effettiva riforma la si sta cercando di fare concretamente oggi con una legge attuativa non prevista dalla Carta e che potrebbe essere contraddetta dalle leggi con cui saranno approvate le intese con le singole Regioni, come è stato già ricordato in questa rubrica. E’ arduo prevedere se e quando tali intese arriveranno al traguardo, a fronte di problemi finanziari apparentemente insuperabili, ma intanto si è forzato il senso di quelle “ulteriori forme” e “condizioni particolari”. Non eccezioni limitate e collegate a specifiche esigenze dei territori, ma ampie cessioni di sovranità senza neanche quelle garanzie e quei contrappesi che sarebbero necessari in un assetto dichiaratamente e onestamente federale. Se, come si diceva, ciascuna delle tre riforme ha un potenziale di trasformazione istituzionale molto rilevante, nel loro insieme, però, esse configurano qualcosa di non dissimile a quella che nel lessico politico degli ultimi decenni è stata definita la Grande Riforma. Da Craxi a Renzi, passando per le varie “bicamerali”, il miraggio di una revisione complessiva della Costituzione si è riaffacciato ciclicamente soprattutto nei momenti di transizione, con esiti sfavorevoli per chi di volta in volta se n’è fatto promotore. L’idea di una Grande Riforma “a pezzi” è coerente con le diverse esigenze identitarie dei partiti di maggioranza ma esprime anche il proposito di non spaventare gli italiani che in passato si sono dimostrati molto suscettibili sull’argomento. Chissà oggi, nella stagione dell’astensionismo. © riproduzione riservata