Rubriche

la gola e la spada

Gianfranco Ravasi sabato 28 aprile 2007
A morte prematura ne ha più mandati la gola implacabile che la spada. Ho ormai concluso un libro dedicato ai vizi, naturale continuazione di quello che due anni fa avevo riservato alle virtù. Prima di inviare il testo all'editore rileggo le pagine manoscritte e giungo al quinto vizio capitale, la gola. In un paragrafo ho citato un curioso proverbio rimato che tempo fa mi aveva insegnato uno spagnolo: «Más mató la cena que sanó Avicena», ne ha fatti fuori di più la cena succulenta di quanti siano stati sanati dalla scienza medica di Avicenna. Vado, così a scartabellare nelle raccolte delle sentenze antiche e trovo una frase attribuita a un non certo memorabile poeta latino cinquecentesco, tale Marcello Palingenio Stellato. È quella che sopra ho tradotto e che riflette un detto comune anche ai nostri giorni: «Ne uccide più la gola che la spada». Ed effettivamente, da un lato, c'è la gola arida e vuota degli affamati che genera morte e, d'altro lato, c'è la gola avida e insaziabile dei popoli ricchi che hanno l'incubo della dieta e delle malattie del benessere. Ritrovare la virtù della temperanza non è solo un dovere di giustizia ma anche di salute e di dignità personale. Ma a questo punto, per assonanza, c'è un altro proverbio che dichiara: «Ne uccide più la lingua che la spada». Gli antichi, infatti, si domandavano: «Lingua dove vai? A salvare o a distruggere la città?». Le nostre labbra hanno, perciò, un grande potere: col cibo eccessivo possono rendere ottusa la mente ed egoista il cuore; con le parole possono colpire, offendere, umiliare. Ma possono anche essere principio di sobrietà, di carità e di consolazione per il prossimo.