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La “giustizia sociale” del lavoro (che non c'è)

Francesco Delzio sabato 7 luglio 2018
Non servono i sondaggi per scoprire che la questione-lavoro è ancor oggi la “stella polare” delle preoccupazioni degli italiani. E che il Governo Conte, come tutti quelli che si sono succeduti negli ultimi dieci anni, si gioca molto del suo futuro sulla capacità di agevolare l'accesso al lavoro dei giovani e di favorire la tenuta dei livelli occupazionali per i lavoratori più maturi. Ciò che, tuttavia, viene trascurato spesso è il tema della “giustizia sociale” del lavoro. In un'era nella quale le diseguaglianze si aggravano e lo scontro élite versus popolo (o in termini più contemporanei, casta versus anticasta) è la dominante assoluta del sentimento collettivo del Paese, è un dovere – eticamente rilevante – di chi governa garantire la par condicio nell'accesso al lavoro. A prescindere dallo status economico e dalla rete di relazioni del contesto di provenienza.
In Italia ciò significa ricostruire la possibilità per tutti di trovare un'occupazione, se si hanno competenze e voglia di esercitarle. Non è così oggi: l'ascensore sociale si è bloccato da almeno quindici anni e l'accesso al lavoro è pesantemente condizionato da raccomandazioni, rapporti familiari, censo. Ma esiste un punto d'attacco per combattere questa “patologia sociale” e culturale: è la riforma dei Centri per l'Impiego, che compare nel «Contratto di Governo» sottoscritto da 5 Stelle e Lega. Una riforma costosa, intorno ai due miliardi di euro. Ma che potrebbe diventare economicamente sostenibile e operativamente efficace se realizzata in modalità “europea”, sotto un duplice profilo. Il primo riguarda la governance: in Francia e in Germania la gestione dell'accesso la lavoro è affidata ad un'agenzia nazionale, che gestisce sia i sussidi che i servizi per l'incrocio tra domanda e offerta di lavoro. In tal modo si garantisce che chi percepisce dallo Stato un sussidio passivo perché senza lavoro – come sarà nel caso del reddito di cittadinanza – sia strettamente monitorato nella sua attività di ricerca attiva del lavoro. Perché non pensare di seguire questa strategia anche in Italia? Per esempio accorpando gli attuali (inefficienti) Centri per l'Impiego all'Inps, una delle poche strutture pubbliche che funziona?
Il secondo profilo europeo riguarda le risorse: la riforma – o meglio, la radicale “ricostruzione” – dei Centri per l'Impiego può essere finanziata con le risorse del Fondo sociale europeo. In questo modo non graverebbe sui (precari) saldi del bilancio italiano e darebbe all'Unione Europea un bel segnale di efficientamento delle modalità d'impiego delle risorse comunitarie.
C'è un solo vulnus che rischia di indebolire questo disegno. In Italia la tutela del lavoro è rimasta una competenza “concorrente” tra Stato e Regioni, a causa della sconfitta referendaria della riforma costituzionale del Governo Renzi. Ogni innovazione in quest'ambito, dunque, dev'essere gestita di concerto con le Regioni. È questo l'ostacolo più temibile alla battaglia per dotare finalmente l'intero Paese di uno strumento di “giustizia sociale” del lavoro (che non c'è).
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