Poco più di 35mila euro, poco meno di 40mila dollari. È il debito, virtuale, che incombe sulla testa di ogni terrestre in questo autunno 2024. Stando alle ultime cifre diffuse in settimana dall’Institute of international finance, centro di ricerca che da anni contabilizza l’indebitamento globale, in sei mesi l’ammontare complessivo è aumentato di 2.100 miliardi, andando così a toccare il nuovo record di 312mila miliardi di dollari.
Dunque la folle corsa continua. Rispetto all’anno scorso in generale ha un po’ rallentato il passo (nei primi sei mesi 2023 il balzo aveva superato gli 8mila miliardi), ma il senso di marcia non è cambiato. E merita guardarci dentro, a questi numeri. Anzitutto, si scopre che i cinque Paesi in cui l’esposizione finanziaria – per lo più pubblica, ma in parte anche privata – è cresciuta in misura più significativa sono stati Cina, Stati Uniti e India, a cui si aggiunge la Russia – dove proprio in settimana il presidente Putin ha annunciato nuove spese extra in armamenti – e un’insospettabile Svezia, solitamente considerata virtuosa. L’inflazione, pur calata, c’è ancora e ha consentito di tenere fermo il rapporto con il prodotto interno lordo globale al 327-328%: con un debito che supera di oltre tre volte il “fatturato”, fosse un’azienda, o uno Stato, il mondo sarebbe – semplificando – tecnicamente fallito da un pezzo. Per fortuna non è accaduto, almeno finora, ma queste cifre aiutano a capire perché l’economia globale poggi su equilibri assai precari, perché le mosse delle banche centrali sui tassi siano determinanti per la sorte di alcuni Paesi (soprattutto i più poveri), perché i rapporti di cambio tra le singole valute possano impattare pesantemente sui rapporti di forza, perché il Giubileo 2025 sarà un’occasione fondamentale per rimettere al centro un tema di cui non si coglie fino in fondo l’urgenza non solo finanziaria.
Un mondo così indebitato è un mondo fragile e nervoso, in cui basta poco per non far tornare più i conti. Ad esempio, fa notare ancora l’Iif, dalla continua progressione dei debiti sovrani trova conferma il grande problema della produttività: negli ultimi vent’anni c’è stata una correlazione evidente tra la crescita dell’indebitamento pubblico e la riduzione del Pil, come se le economie dopo aver ricevuto una salutare medicina si fossero poi “accomodate” sul sostegno pubblico. Altro tema, non da poco: chi sosterrà i costi della transizione energetica? Il processo sarà più lungo del previsto, d’accordo, ma qualcuno alla fine dovrà comunque pagare il conto. E saranno con ogni probabilità le istituzioni pubbliche a doverlo fare, con un indebitamento complessivo destinato a salire dagli attuali 92mila miliardi di dollari ai 145mila del 2030 e ai 440mila del 2050. Nuovi, pesantissimi macigni sulle generazioni future che si troveranno forse un pianeta più sostenibile dal punto di vista ambientale ma certo non finanziario.
Infine, le disuguaglianze. La corsa del debito procede a ritmi diversi, si diceva. E se i Paesi delle economie avanzate stanno tornando nei ranghi dopo le misure extra varate per sconfiggere la pandemia, lo stesso non può dirsi per quelle emergenti. Nel primo semestre i debiti (pubblici e privati) hanno raggiunto il 245% della ricchezza, 25 punti percentuali in più del periodo pre pandemico: un gap sempre più ampio e sempre più difficile da colmare. Un tema non solo da economisti o governanti, che porta con sé un rischio evidente: alimentare nuove tensioni geopolitiche.
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