Perfino in Italia, dove l'individualismo è solo un vizio che non prevede nessuna virtù, né responsabilità, né rischi personali, si comincia a essere stufi della mancanza di spirito civico, di comunicazione fra cittadini. La gente non si parla più. Tutti muti: sui treni, sui mezzi pubblici, negli spazi urbani e perfino nei condomini. Tutti si lamentano viziosamente dei vizi dei politici, dei governi, dei partiti, dell'amministrazione pubblica, dello Stato, che sono assenti, che non fanno: perché non vogliono e perché non ne sono capaci. Stiamo appena scoprendo che il problema forse non è destra o sinistra, ma è, ancora prima, la capacità e possibilità di fare la cosa di cui si parla e farla decentemente. Le proverbiali e mille volte nominate riforme, anche quando vengono fatte, sono fatte male, in fretta, senza studio e criterio. A questo proposito, consiglio vivamente di leggere la lunga intervista che apre l'ultimo numero, il 249, della rivista “Una città” (info: http://www.unacitta.it/newsite/index.asp) dedicata al community organizing, sul creare «coalizioni civiche intorno a interessi condivisi» per dare più potere ai cittadini con il rafforzamento delle relazioni fra persone. Il movimento è stato fondato nel 1940 negli Stati Uniti da Saul Alinsky e l'intervistato, l'attivista Michael Gecan, ne spiega metodi e finalità. Si tratta anzitutto di rimediare alla desocializzazione oggi dovunque in corso. Le società si stanno disgregando. La folla urbana composta di individui indifferenti chiusi in se stessi, analizzata da scrittori e sociologi dall'Ottocento in poi (Edgar A. Poe, Friedrich Engels, Baudelaire, Eliot, fino a David Riesman) minava la democrazia deresponsabilizzando i cittadini. Il degrado dei grandi centri urbani non è solo frutto di cattiva amministrazione, viene sempre di più dall'assenza di senso civico e comunitario. Ci si aspetta tutto dall'alto, dal sindaco, dal capo del governo, dallo Stato padre e padrone, che dovrebbe proteggerti e intanto ti esautora, ti aliena, trasmettendo a tutti un senso di soporifera impotenza. Se i commentatori politici si moltiplicano e gareggiano nello sputare opinioni a getto continuo (la politica è materia di talkshow e chiacchiere da bar) è perché si è spettatori. Si tratta invece di parlarsi, dice Michael Gecan, per trovare interessi comuni sui quali intervenire facendo qualcosa. Ci vuole pazienza, flessibilità, parlare con i singoli, non mancare di senso dell'umorismo e di senso della misura, coinvolgere le chiese e i sindacati. «La vera questione è: le persone sono disposte a fare qualcosa o no?». Per tutto questo c'è bisogno di impegno, ma anche, se non soprattutto, di metodo. L'intervista lo spiega.