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La forza esemplare degli atleti pensanti

Mauro Berruto mercoledì 2 settembre 2020
È stato un agosto strano per lo sport, uno di quei mesi che capitano once in a life come dicono gli anglosassoni. Probabilmente (anzi, speriamo sia così) solo una volta nella vita si può vedere una finale di Champions League, la partenza del Tour de France e i playoff della Nba di basket nel mese di solito dedicato all’ombrellone o alle gite in montagna. Così l’agosto 2020, unico nel genere, ha partorito un gesto epocale: nella “bolla” di Orlando, dove si stanno svolgendo i playoff Nba, è successo qualcosa destinato a cambiare la storia dello sport. Davanti a spettatori digitali che si agitano, grottescamente su tribune vuote, un gruppo di atleti ha staccato la spina e spento tutto: partita, show, quegli stessi display con i tifosi pixelati. La decisione degli atleti dei Milwaukee Bucks di non scendere in campo contro gli Orlando Magic in risposta al grave ferimento, con sette colpi di arma da fuoco alla schiena, di Jacob Blake da parte dalla Polizia è destinata a cambiare un paradigma. Prima di tutto per l’effetto domino generato: alla sospensione dell’intera giornata di gare Nba, sono seguiti annullamenti di gare della Wnba, la lega basket femminile, poi di baseball, calcio, tennis, per arrivare alle dichiarazioni (anche se senza una presa di posizione altrettanto radicale) di Lewis Hamilton nella Formula 1. Il vero motivo di discontinuità, tuttavia, sta altrove. Ci sono stati altri gesti fortemente simbolici o politicizzati nella storia dello sport, come i pugni guantati di Tommie Smith e John Carlos ai Giochi Olimpici di Città del Messico 1968, alle tante prese di posizione di Muhammad Alì, allo kneeling (il ginocchio a terra durante l’inno) del giocatore di football americano Colin Kaepernick che tanto ha fatto arrabbiare Donald Trump e che è stato l’incipit delle prese di posizione nei confronti dei soprusi ai diritti civili e del razzismo che abbiamo visto anche nei nostri stadi. Tuttavia questi gesti, per quanto forti e coraggiosi, erano sempre stati prima, durante o al termine di eventi sportivi regolarmente disputati. La novità vista a Orlando è stata quella di “spegnere” lo show e regalare, grazie a quei diciassette cestisti di Milwaukee, una forza e un potere inaspettato agli atleti. L’unico precedente simile risale al 1968 quando, poche ore dopo l’assassinio di Martin Luther King, due grandi leader sportivi di allora, Bill Russell e Wilt Chamberlain (anche in questo caso giocatori di basket), informati della tragica notizia volevano rifiutarsi di giocare. Misero la questione ai voti nei rispettivi spogliatoi (Boston Celtics e Philadelphia 76ers), ma l’esito fu diverso, si giocò. Oggi, invece, nulla potrà essere come prima: politici e dirigenti (normalmente abituati a decidere senza neppure consultare gli atleti, si pensi alle manfrine per l’interruzione del campionato di calcio in piena pandemia) dovranno tener conto di questa bella realtà: atleti “pensanti”, protagonisti dello spettacolo sportivo, ma anche capaci di influenzare l’opinione pubblica su temi come quello dei diritti civili. Insomma, più che spegnerla, il manipolo di giocatori di Milwaukee, la luce l’ha accesa. Viene da pensare al gesto della campionessa olimpica dei 1500 metri a Rio 2016, la keniota Faith Kipyegon, che chiese al Governo, per la sua medaglia d’oro, non un premio in denaro, ma la possibilità di far finalmente arrivare l’elettricità nel villaggio di Ndabibit, dove era nata. Desiderio realizzato e dimostrazione, anche in quel caso, che talvolta lo sport ci regala la possibilità di vederci più chiaro.