Accade talvolta che il personaggio divori la persona. Accade che la persona passi una vita intera a liberarsi del personaggio. E accade che forse, superata una certa soglia, non possa più liberarsene del tutto. Potrebbe accadere anche a Mauro Corona, che Simonetta Sciandivasci incontra nella sua Erto in occasione dell'uscita dell'ultimo libro, ultimo di oltre trenta (“Stampa”, 12/3). «Questo è il mio libro più vulnerabile – confida – diverso da tutti gli altri che ho scritto, dove la mia insicurezza era mascherata e soffocata, oppure imbellita e sublimata. Qui ho raccontato una conversione: ero uno spaccone, ubriacone, arrogante, cacciatore con 15 processi di bracconaggio sul groppone, scrivevo storie piene di violenza, ed era una violenza appresa, inoculata, ma non per questo giustificata. Poi mi sono fermato, ho smesso di bere, non ho più ucciso animali, e ho riconosciuto che per tutta la vita ho obbedito al tipo di maschio che mi è stato chiesto di essere». La montagna? «Il palco della mia recita». Domanda finale: «Cosa desidera più di tutto?». Risposta: «Che la gente mi creda». La maggiore aspirazione di un personaggio; o forse di una persona, chissà?
Persona racchiusa a forza nel personaggio fu forse Pier Paolo Pasolini. Due nuovi ricordi. Massimo Fini (“Fatto”, 12/3) ne rievoca il «modo di parlare piano, rettilineo di chi è perfettamente consapevole della propria cultura e perciò non la esibisce». Enzo Bianchi (“Repubblica”, 14/3) ricorda gli incontri alla Pro Civitate Christiana di Assisi, fin dal 1963, e i dialoghi sul film su san Paolo, che mai Pasolini girò: «Anch'io sono caduto da cavallo come Paolo, ma un piede mi è rimasto nella staffa e così continuo a battere la testa qua e là!». Di lui, Bianchi ricorda «la luce che attraversa la sua tristezza, l'enigma della sua costante e testarda interpretazione di se stesso come inascoltato profeta e come “povero Cristo”». E finì così, divorato dal suo personaggio, inesorabilmente.