La famiglia migliora la vita, pure in prigione
Nel regolamento sull'Ordinamento penitenziario (Dpr 30 giugno 2000, n. 230) si legge che «particolare attenzione è dedicata ad affrontare la crisi conseguente all'allontanamento del soggetto dal nucleo familiare, a rendere possibile il mantenimento di un valido rapporto con i figli, specie in età minore, e a preparare la famiglia, gli ambienti prossimi di vita e il soggetto stesso al rientro del contesto sociale». Invece proprio la lontananza crea continue problematiche a moltissimi detenuti e ai loro familiari, oltre a rendere impossibile un reinserimento nel tessuto sociale di appartenenza, in violazione del principio di territorialità della pena. Ciò porta a un generale peggioramento della condotta dei reclusi, non solo nei confronti degli operatori penitenziari, ma anche dei compagni di detenzione e degli stessi familiari.
Un trasferimento sgradito, per esempio, può determinare reazioni inconsulte per rabbia più o meno repressa, per umiliazione, per frustrazione. Reazioni che, analogamente, possono arrivare in seguito a un trasferimento chiesto e non ottenuto. Per questo penso che il trasferimento imposto non possa essere utilizzato come modalità di gestione dei detenuti "problematici", ma dovrebbe rappresentare l'extrema ratio. La gestione del detenuto va piuttosto improntata al dialogo e al processo di conoscenza personale. Cosa che vedo fare, per la verità, alla maggior parte delle persone che lavorano in carcere, pur tra mille difficoltà.
La valorizzazione dei rapporti con i familiari dovrebbe essere uno degli elementi fondamentali del trattamento, insieme alla possibilità di trovare un lavoro, di migliorare la propria istruzione, di praticare la propria fede religiosa e di partecipare alle attività culturali, ricreative e sportive. Ma sotto il primo profilo, da marzo scorso le limitazioni anti-Covid (prese per la salvaguardia di tutti) hanno perfino peggiorato la situazione. Non è possibile, anche quando il giudice ne veda la possibilità, trasferire un detenuto in un istituto più vicino ai propri familiari. E ciò sta creando crescenti malumori. Inoltre, fino ai primi di marzo a Rebibbia vi era l'area verde dove i detenuti potevano intrattenersi con i familiari, abbracciare le mogli, i genitori, i figli e condividere momenti di serenità. Ciò era più facile e frequente per chi abitava nel Lazio o in zone non troppo lontane. Ma con i divieti imposti dalla pandemia, sono svaniti anche quei pochi momenti che sapevano di casa. Ora vi è soltanto la possibilità di un colloquio settimanale dietro un divisorio di plexiglass, oppure di una videochiamata o di una telefonata, previa prenotazione.
Padre Stimmatino, cappellano
Casa circondariale maschile
"Nuovo Complesso" di Rebibbia