Montaigne parla dell’apprendimento della morte come di un apprendistato della libertà. Così scrisse: «Chi ha imparato a morire ha disimparato a essere schiavo». Possiamo vivere semplicemente incarcerati nella paura di morire, dimenticando che il senso della vita non si misura dalla durata ma da come la utilizziamo: «C’è chi ha vissuto molto e non ha vissuto». La coscienza della finitudine, invece, ci aiuta a comprendere la vita come possibilità, dove ci arrischiamo a costruire un’esperienza di autenticità.
In effetti, allo stesso modo del linguaggio, e della norma morale e sociale, la persistenza del ricordo dei nostri morti ci umanizza. Anche nelle nostre società secolarizzate, il legame che manteniamo con i morti esprime ancora quello che Ricoeur chiamava i «criteri dell’umanità». Non ce ne sbarazziamo, perché questo significherebbe svuotarci di noi stessi. Noi siamo anche i nostri morti.
E, diversamente da quanto si potrebbe credere, il pensiero della morte non mette in discussione il desiderio della vita, né sminuisce l’investimento o la passione che riversiamo nella sua prosecuzione. La maturazione dell’orizzonte della nostra morte è anzi condizione per rinforzare il desiderio e la leggerezza necessari a vivere bene ogni giorno, fino alla fine. A confidare tanto nella vita da accettare di donarla. A questo ci orienta la bella preghiera biblica del salmo 90: «Insegnaci a contare i nostri giorni / e giungeremo alla sapienza del cuore».
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