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La cronista di nera marchiata dal figlio

Marina Corradi giovedì 1 settembre 2016
Quando ero ragazza ho cominciato a lavorare come cronista di cronaca nera. Era un lavoro duro girare fra ospedali, obitori, periferie dove all'alba uno spacciatore era stato ammazzato. Avevo poco più di vent'anni eppure mi muovevo tranquillamente fra quella morte, attenta a osservare scrupolosamente i particolari che avrei dovuto riferire.Un uomo ucciso su un marciapiede non mi impressionava eccessivamente, e nemmeno mi si stringeva il cuore per la pietà. Mi avevano insegnato che un cronista deve essere distaccato, e raccontare come l'obiettivo di una macchina fotografica. Io, diligente, obbedivo. Anni dopo ho cominciato a fare l'inviato. Andavo ancora a vedere la morte, semplicemente andavo più lontano.Continuavo a osservare, distaccata. Poi, deve essermi successo qualcosa. Improvvisamente davanti a un uomo assassinato mi ritrovavo travolta da una strana pena: non ero più l'obiettivo di una macchina, invece un dolore sconosciuto mi arpionava. Che cosa mi sarà successo, mi domandavo. Qualcosa di nuovo si era introdotto fra me e la realtà: come quando, ascoltando la radio, si sovrappone al suono un'interferenza.Ci ho messo un po' a capire. Era stato appena un istante, una frazione di secondo, e mi ricordo anche esattamente dov'ero, in casa, con il primo figlio neonato in braccio. Mentre lo cullavo mi ero detta, con un improvviso sbalordimento: pensa, tutti, tutti gli uomini, anche i peggiori, e i condottieri, e i criminali, e i dittatori e gli schiavi, tutti sono stati un tempo identici a questo mio figlio, che ho tra le braccia. Questo pensiero apparentemente banale mi ha segnato, inciso, quasi; a ripensarci, era come se mi fosse stato apposto un invisibile marchio.Da allora, nessuna delle vittime di violenza che ho visto o di cui ho letto mi è stata più del tutto estranea. Davanti ai naufraghi del Mediterraneo, ai cristiani perseguitati, al ragazzino umiliato dai bulli, si ripeteva quella interferenza, come un graffio doloroso: il pensare che anche quello non era solo un uomo, ma un figlio. E quando leggo di storie particolarmente crudeli, di ragazzini afghani in viaggio per l'Occidente nascosti fra gli ingranaggi di un Tir, di tredicenni che sbarcano soli, gettati alla ventura, di bambine prostituite, l'interferenza si fa più insistente e quasi assordante: tutti, tutti questi ragazzi sono figli.Devo dire che il pensiero è a volte tanto tagliente che vorrei poterlo spegnere, come si gira la manopola di una radio. Ma il marchio è stato impresso quel giorno, con Pietro fra le braccia, e non si può cancellare. Ripenso alla ragazza che percorreva le periferie di Milano, attenta, ma indifferente alla morte, e mi stupisco. Quanto profondamente la maternità entra nelle viscere, e cambia il cuore. Te ne resta un dono: riconoscere nell'altro, anche estraneo, la comunanza con qualcuno che ti è molto caro.