La «coscienza ambientale» cresce alla scuola dei Papi
Il primo gruppo organizzato propriamente definibile "verde" si affacciò in Germania nel 1972 (dice la leggenda, da un nucleo originario di cittadini contrari alla costruzione di una centrale nucleare o, secondo un'altra versione, di un aeroporto). Ma già nel 1970, parlando nel 25º anniversario di fondazione della Fao, Paolo VI aveva denunciato il rischio di una «catastrofe ecologica», osservando che «già vediamo l'aria che respiriamo viziata, l'acqua che beviamo degradata, i fiumi, i laghi e persino gli oceani inquinati, al punto che temiamo una vera e propria "morte biologica" nel prossimo futuro». Beni comuni a rischio, che sollecitano «l'urgenza e la necessità di un cambiamento quasi radicale nel comportamento dell'umanità, se vuole assicurare la sua sopravvivenza». L'anno successivo l'Onu promuoveva la Giornata della Terra. E, nel dicembre del 1979, san Francesco d'Assisi fu proclamato "Patrono degli ecologisti" da Giovanni Paolo II, che pochi anni più tardi avrebbe chiamato il mondo a una «conversione ecologica».
Il creato, infatti, non è una proprietà dell'uomo ma «un dono», ha detto poi Benedetto XVI (il primo, per questo, a meritarsi il titolo di "Papa verde"), che l'uomo «ha ricevuto perché con esso possa realizzare il disegno di Dio. Erigendo, però, se stesso al centro dell'universo, l'essere umano ha gestito l'ambiente in cui vive operando scelte che mettono a rischio la sua stessa esistenza, mentre esso esige rispetto e tutela da parte di tutti quelli che l'abitano». È su questa linea che papa Francesco si è mosso nel messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato in programma il prossimo 1° settembre. Che è un invito pressante ad ascoltare la natura, perché «se impariamo ad ascoltarla, notiamo nella voce del creato una sorta di dissonanza. Da un lato, è un dolce canto che loda il nostro amato Creatore; dall'altro, è un grido amaro che si lamenta dei nostri maltrattamenti umani».
A gridare sono «la sorella madre terra», le creature che la abitano, i poveri, i popoli nativi, i nostri stessi figli. Sono queste «le grida amare» che non possiamo più ignorare. Si tratta allora di «convertire i modelli di consumo e di produzione, nonché gli stili di vita, in una direzione più rispettosa nei confronti del creato e dello sviluppo umano integrale di tutti i popoli». C'è bisogno di «costruire una chiara base etica per la trasformazione di cui abbiamo bisogno al fine di salvare la biodiversità; lottare contro la perdita di biodiversità; promuovere la solidarietà globale, alla luce del fatto che la biodiversità è un bene comune globale; mettere al centro le persone in situazioni di vulnerabilità, come le popolazioni indigene, gli anziani e i giovani». E, in tutto questo, va sempre ricordato che esiste «un debito ecologico delle nazioni economicamente più ricche, che hanno inquinato di più negli ultimi due secoli».