Visitai Marrakesh insieme ai miei studenti arabi, residenti a Roma da diversi anni, che stavano tornando a casa per rivedere le famiglie. Ci arrivammo in macchina partendo dal villaggio, nei pressi di Khouribga, da cui erano emigrati. Naturalmente andammo subito nella celebre piazza di Jamaa el Fna dove dall’alba al tramonto si affollano centinaia di turisti e venditori, incantatori di serpenti e saltimbanchi, acrobati e suonatori di tamburello. La reazione che ebbero Omar e Faris mi colpì nel profondo. La stessa città capace di entusiasmare Winston Churchill suscitò lo sconcerto degli adolescenti marocchini. Ed io assorbii la loro delusione, al punto tale che, quando mi chiesero di portarli a mangiare una pizza piuttosto che il kebab, sorridendo li accontentai. Erano diventati più italiani del loro professore! Tuttavia, mi venne da pensare, ammesso e non concesso che il Maghreb si fosse venduto l’anima al mercato, i miei ragazzi stavano rischiando di fare la stessa fine perché tutte le comodità italiane che con ogni evidenza mostravano di rimpiangere erano, a ben riflettere, frutto del medesimo mutamento del Marocco da loro rifiutato. Questa contraddizione non gliela spiegai con un ragionamento, ma credo che tutti e tre la intuissimo. Senza peraltro poterci far niente per evitarla.
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