La conchiglia del pellegrino, invito all'incontro
L’abito di Cristo è quello del viandante, porta un mantello di pelo e il cappello dei romei o di quelli che, per impegno votivo, decidono di viaggiare fino al Campus stellae. Sì, Cristo è un pellegrino, il più grande della storia, non si può fermare alle attese di quei due discepoli delusi, deve raggiungere la “fine del mondo” cioè finis terrae, quegli estremi confini che al tempo di Duccio si fermavano allo Stretto di Gibilterra. Cristo ha l’equipaggiamento necessario per mangiare la Pasqua: fianchi cinti, bastone, sandali ai piedi e passo frettoloso.
Così ci accorgiamo del cenno deciso del Cristo, dello sguardo penetrante verso un punto lontano, più lontano rispetto al cuore e all’attesa dei due compagni di viaggio.
Sorprende, di Cristo, la borsa: Duccio ha voluto corredarla con due conchiglie. Le capesante del cammino di Santiago.
La conchiglia è un simbolo raro. Nella bibbia, la parola “conchiglia” ricorre una sola volta e a proposito degli aromi necessari per i sacrifici della Tenda. Secondo la leggenda, quando i primi cristiani giunsero alle coste della Galizia trasportando il corpo di San Giacomo apostolo, un giovane a cavallo (Cristo stesso) si fece loro incontro e per raggiungerli si gettò in mare riemergendo con il corpo pieno di conchiglie. Così il mito greco di Posidone, Dio del mare, e di Venere, dea dell’amore, trova contatto con la simbologia cristiana. Leggenda, certo, ma vero è che chiunque raggiungeva Compostela aveva l’obbligo di immergersi nel mare, rinnovare il battesimo, e portare con sé la testimonianza di una capasanta.
Il Cristo di Duccio ha due conchiglie, ha già percorso due volte il giro della terra, ma ancora ne deve percorrere prima che tutta l’umanità (dunque anche noi) sia entrata in quella locanda.
Le conchiglie compaiono anche, in altre tele dedicate all’episodio di Emmaus, non sull’abito di Cristo, ma su quello di un discepolo. È il caso della Cena di Emmaus di Caravaggio, custodita oggi alla National Gallery di Londra. Caravaggio ci permette di entrare nella locanda. Siamo anche noi a tavola con Cristo ed egli ci sorprende con un gesto brusco del braccio, quasi ad indicarci la necessità, per lui, di continuare il cammino. È tanta la sorpresa dei commensali e del locandiere che tutto si ferma quasi sospeso in quell’istante. Presto, e lo sappiamo dal Vangelo, Gesù scomparirà dalla loro vista e Caravaggio ci offre la gioia di vederlo per l’ultima volta, proprio come i due di Emmaus. Ma se il discepolo seduto a sinistra, poggiandosi sui braccioli della sedia, sembra volersi alzare spaventato, l’altro a destra, allarga le braccia quasi a voler misurare i confini della tela, i confini di quella tavola.
Questo è probabilmente il discepolo di cui non conosciamo l’identità, quello nel quale Luca, proprio perché lasciato anonimo, ci invita a identificarci. Caravaggio lo veste col rocchino (o sanrocchino), il mantello corto dei viatori, sul quale fa bella mostra di sé una capasanta. Il marrone del mantello e le braccia spalancate del discepolo sono un potente rimando alla croce. Per Caravaggio la Chiesa è chiamata a raggiungere i confini del mondo con la forza disarmante della croce. E anche noi, custoditi dal cibo offerto in questa locanda, non possiamo rassegnarci a vedere questa tavola vuota: dobbiamo correre all’annuncio di Colui che, come allude la conchiglia, starà con l’uomo ogni giorno, fino alla fine del mondo.
Immagini: Duccio da Buoninsegna, Maestà, 1308-1311, I discepoli di Emmaus (tergo della Maestà) particolare, tempera su tavola, 51 x 57 Museo dell'Opera del Duomo. Siena Michelangelo Merisi da Caravaggio, Cena di Emmaus, 1601-1602, olio su tela,139 cm × 195 cm
National Gallery, Londra