La commedia dell'arte, genere italiano dove tutto è comico (se non fosse serio)
La politica italiana, vista dall'estero, sembrerebbe "machiavellica". Solo che Machiavelli teneva in gran conto la mobilità e molteplicità del reale. Mentre nella nostra politica c'è più commedia che realismo. C'è più spettacolo che raggiungimento di un fine. La prima repubblica crollò perché era illusionistica: i comunisti certo non erano comunisti, ma nessuno era quello che diceva di essere. Se c'è una cosa semplice che risulta da tutte le nostre crisi pubbliche, è che non sappiamo fare i conti. Sperperiamo senza criterio e promettiamo l'impossibile.
Leggo in questi giorni il saggio di Giulio Ferroni Commedia (Guida). Il capitolo intitolato «Un genere italiano: la commedia dell'arte» mi fa sentire, ahimè, subito a casa. La commedia dell'arte in Italia continua a trionfare perché «fa leva sull'improvvisazione, su una scatenata vitalità gestuale e linguistica, sull'evidenza di ruoli predefiniti, fissati in maschere». Gli schieramenti politici lavorano su "canovacci" di idee retoriche e su queste improvvisano i loro "lazzi" comici e aggressivi. Come nella commedia dell'arte, si arriva a complicazioni inverosimili che rendono la vita pubblica italiana incomprensibile fuori dai nostri confini. La tv moltiplica lo spettacolo. Si fa finta di discutere. In realtà si mette in scena una lite fra maschere. Il carnevale dovrebbe essere solo un periodo dell'anno. La commedia dell'arte della nostra politica riesce a «prolungare illimitatamente sulla scena il tempo del carnevale». Finché tutto crolla, la realtà si impone e non è comica.