Rio de Janeiro è fatta così: più si va in alto e più si tocca il fondo. A pochi chilometri da Copacabana, inizia un’altra storia. Sporca e disperata. Il ghetto è in cima a salite strette, dove arriva poca luce e nessun sorriso. Ricordo muri di mattoni rotti che è difficile immaginare siano case. Una sopra all’altra, senza recinti. Nemmeno quelli della disperazione. Non le chiamano “favelas”, perché è un termine che considerano dispregiativo. Ma quelle sono. A Rio preferiscono dire: comunitad. Che non rende l’idea, e semplifica il dramma.
Per capire bisogna salire. Decine e decine di ammassi di abitazioni. Cidade de Deus è il nome di quella che guarda Rio dall’alto: chissà a quale dio deve aggrapparsi chi vive senza scarpe e senza speranza. Poi leggi i nomi delle strade: Via della Luce, Via del Vangelo. Perché la Fede supera sempre ogni degrado. Vagano tra le lamiere in vicoli luridi, i 65 mila abitanti della Città: parte dei confini della favela sono delimitati da un’autostrada trafficatissima, così passa la voglia di uscirne. Qui, tra fili scoperti e fogne a cielo aperto, i bambini costruiscono aquiloni colorati da vendere in centro. «Os humiliados serao exaltados», gli ultimi saranno i primi, sta scritto su un muro. In fondo, in basso, si intravede il mare. Che, quando tocca la terra, si porta via tutto. Anche la rabbia.
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