Una casa in cui sono cresciuti tre figli, quando poi, adulti, se ne vanno, per la madre e il padre che restano non è più la stessa casa. Uguale magari negli arredi, ma del tutto diversa nei rumori. Quella casa era un tempo un continuo alternarsi di voci, risate, pianti, capricci, e sempre risuonava di quel nome, “mamma!”. Avevano fame, non sapevano fare le divisioni, volevano uscire, o avevano una domanda da fare. E “mamma, mamma”, la casa di quella parola era come intessuta.
Giusto, sacrosanto che ora vadano. Devono andare. Ma quando si sposa la piccola, appena oltre la gioia, intravvedi un grande cono d’ombra che ti aspetta. Caspita, che silenzio. La quiete che c’era in casa solo in lontani giorni d’agosto, quando “loro” erano via con i nonni e tu camminavi un po’ a disagio in tanta pace. Allora, però, ritornavano. Adesso sono andati. Restate voi due, già un po’ in là con gli anni.
La vita sembra da reinventare. Ma non in un qualsiasi modo. Non ti interessano le compagnie inutili, gli hobby, o peggio i passatempi. Così grandi sono state l’energia e l’amore incentrate sui figli, che ora dubito di essere stata vittima del più dolce degli inganni. Quando sei giovane e diventi madre o padre, nella commozione, difficilmente capisci. E sono poi così dipendenti da te in tutto i figli piccoli, che è facile pensarli come “tuoi”, per sempre. È vero soggettivamente: dal tuo cuore non se ne andranno. Ma la realtà oggettiva è che ora sono uomini e donne con la vita davanti, e la vita è loro. Per quanto ti vogliano bene, la vita li chiama, e magari lontano. Ti senti lasciato indietro.
Non lo avevi compreso, non te lo avevano detto forse, che i figli non erano “tuoi”, ma solo affidati a te? Che sciocca sei stata, a non afferrarlo in tempo. Forse poi che tu, con i tuoi genitori, eri stata diversa? Eri stata anzi peggiore, più brusca e più distratta: ma a vent’anni, ti ricordi, la vita era un mare in cui eri chiamata a buttarti. E dunque, tutto va come deve andare. Non lamentarti. Soltanto, questa casa vuota, e la fatica di trovare un senso per ricominciare. Non può bastare un tirare avanti. Ci deve essere, dopo un amore grande, qualcosa di altrettanto grande, a colmare le giornate.
Intanto, ed è un inimmaginabile dono, ci sono due nipoti. Vengono, giocano, mangiano, vanno. Le loro voci per qualche ora ti rincuorano e riempiono di nuovo le stanze. Straordinario ritrovare in loro gli occhi dei tuoi figli bambini, abbracciare di nuovo, ridere di nuovo come allora. Straordinario, eppure ancora non basta.
Cosa vuoi dunque di più che una casa, un marito, e figli e nipoti che alle volte vengono a cena? Si può chiedere altro?
Eppure, il corridoio con le porte delle loro stanze chiuse fa male, e ogni volta ti pone una domanda: e adesso? Bisogna contentarsi, da vecchi, del po’ di affetti e salute e tempo che resta? (Io non ho mai amato questo verbo, “accontentarsi”.)
Deve esserci, nella vecchiaia, un compito, o meglio un compimento. Queste stanze inerti me lo dicono. Non finirò, non voglio, a fare cruciverba, o davanti alla tv. Mentre tutto ciò che sembrava concreto e “tuo” si rivela effimero, è come se il vuoto della casa chiedesse di essere colmato. «L’anima, non è che una cavità che Egli riempie», ha scritto il poeta cristiano James Stapleton Lewis.
La casa pare un palco abbandonato ora, finito lo spettacolo, nessuno più in platea. Il compito, ti pare di intuire, sta davvero nel tornare come bambini, come è scritto. Non è un tuo sforzarti però, è qualcosa da domandare. Questo vuoto attorno è la circostanza che può spingerti a chiedere che venga, chi non ti può essere tolto. Che venga: «L’anima, non è che una cavità che Egli riempie».
© riproduzione riservata