Siamo travolti e straconvinti che «la bellezza salverà il mondo». Col tempo, l'affermazione di Dostoevskij, che peraltro pare vada attribuita a Skovoroda, è diventata una specie di ipse dixit. Un principio indiscutibile come il sistema copernicano o la forza di gravità. Pian piano, la bellezza, come concetto, si è andata declassando, diventando un luogo comune, quasi soltanto una esclamazione. Mi pare che le cose belle, le opere d'arte belle ed infine le persone belle, vedendole, non inducano ad immaginare un di più di bellezza ma semplicemente una sua stabilizzazione fino quasi alla rassegnazione. Se incontro una donna bellissima per strada, subito la dimentico. Se per via m'imbatto in una bruttezza conclamata, essa mi accompagna o addirittura mi perseguita ben dopo il tempo dell'incontro. La miseria con le sue brutture mi fa pensare al padreterno. La ricchezza con tutti i suoi pavoneggiamenti di eleganza e bellezza esibite, mi spinge verso la sonnolenza. La bruttezza può suscitare solidarietà, la bellezza induce all'invidia. La bellezza annoia, la bruttezza incendia. Il mondo, forse, non sarà affatto la bellezza che lo salverà ma la bruttezza, o meglio l'esercizio responsabile della sua gestione, così generosamente presente e determinante dentro e intorno a noi.