L'arte contemporanea si propone, al suo apice, come investimento economico, le cui quotazioni scimmiottano quelle delle agenzie di rating nella finanza, e all'interno del mondo finanziario costituiscono una sorta di rappacificante alibi consolatorio. Ma persa da troppo tempo ogni idea di arte come espressione di una collettività che è sempre più informe massa, lascia troppo presto trapelare che proprio in quella qualità informale, nella sua capacità cioè di trasformarsi sempre in qualcos'altro si rivela per quello che è, profitto e accumulo. In “La mia idea di arte”, papa Bergoglio si sottrae a quest'ottica andando al cuore del problema e proponendo una forma d'arte che assume “peso” dalla sua forza simbolica e da essa soltanto, del tutto sottratta a ogni valore “oggettivo” (e quindi di oggetto, e di merce). L'esatto contrario, ad esempio, del teschio tempestato di diamanti della star mainstream Damien Hirst, che esprime “valore” (economico) già nella natura dei suoi materiali. Ma non basta, purtroppo. L'arte si presta troppo a essere simbolicamente gonfiata (o sgonfiata) e a vendersi con tecniche di marketing per nulla dissimili a quelle applicate a ogni genere di consumo. Ma la bellezza non ha costo e, scacciati i mercanti dal tempio, non può che tornare bene comune. Così come è stata per millenni e così come tornerà ad essere.